I conti con la vita di un boss senza pietà

ITALIA. La cattura di Matteo Messina Denaro, la «primula rossa» della mafia, nasce da una circostanza quasi fortuita. Dovendo sistemare una cimice in casa della sorella Rosalia, nel bagno della sua abitazione, dopo essersi introdotto di nascosto, un carabiniere del Ros aveva scelto l’incavo di una gamba di ferro di una sedia vicino al lavandino.

Ma al nascondiglio era arrivata prima la stessa Rosalia, che aveva sistemato proprio in quel pertugio scelto dall’investigatore un pizzino con il diario delle visite e della chemioterapia del fratello. Da lì, con metodi da vecchio maresciallo e sistemi informatici di ultima generazione, la Procura di Palermo è giunta a identificare il vero paziente della clinica palermitana celato sotto il falso nome di Matteo Bonafede.

«Se non avessi avuto un tumore non mi avreste mai preso» è la ormai celebre battuta del boss di Castelvetrano davanti al procuratore palermitano Maurizio De Lucia. «Ma intanto ti abbiamo preso», è stata la risposta pacata del magistrato. Restava solo lui nella lista dei capimandamento: la vecchia Cupola non esiste più e migliaia di mafiosi sono in galera. Sappiamo che Cosa Nostra sta cercando di ricostruirla, utilizzando anche le donne, visto che la maggior parte degli uomini è in una cella, ma al momento non ce la fa, è composta da bande criminali e anarchiche senza un coordinamento.

Quali e quanti misteri si porta nella tomba Messina Denaro? Per ora molti. Il suo immenso patrimonio, frutto dei traffici illegali di Cosa Nostra e dei canali di riciclaggio di cui poteva disporre, non è stato ancora trovato del tutto. E soprattutto non è ancora venuta alla luce la rete di protezioni di cui ha goduto in 30 anni di latitanza. Parliamo del «terzo livello», ovvero di tutta quella serie di legami politici ed economici di cui gode Cosa Nostra e naturalmente anche la potentissima cosca di Castelvetrano - di cui era il capo «da remoto» - per prosperare.

Con lui se ne va davvero l’ultimo padrino di una mafia che aveva scelto gli omicidi e le stragi di Stato per continuare a fare affari, sebbene negli ultimi anni avesse contribuito a trasformare l’organizzazione – indebolita dall’azione della magistratura e delle forze dell’ordine – in un’entità invisibile e discreta, più a suo agio tra le complicità dei colletti bianchi che tra i kalashnikov e le bombe. Ma la catena del male seminato dal boss è lunghissima e infernale: Messina Denaro è stato l’esecutore e il mandante di una lunga scia di omicidi persino di una donna incinta che supplicava invano i suoi killer di risparmiarla perché aveva una vita in grembo. Alleato dei Corleonesi di Totò Riina, c’è la sua firma in tutte le stragi mafiose, da Capaci e via D’Amelio agli Uffizi di Firenze. Per non parlare del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, tenuto per anni in condizioni orribili, in una stanza senza porte e finestre nel sotterraneo di una masseria, lasciato languire su una brandina, per poi essere strangolato ormai esanime ed essere sciolto nell’acido.

Può un boss feroce come Messina Denaro meritare il rispetto degli uomini? Per un cristiano quel «parce sepultis» si deve anche a una persona come lui, che ha vissuto un’esistenza totalmente incompatibile col Vangelo, provocando tanta sofferenza, nella speranza che il passaggio cruciale tra la vita e la morte abbia germinato la presa di coscienza di tanto male commesso. Una vita che non ha mostrato segni di ravvedimento – se diamo seguito ai suoi pizzini trovati in alcuni dei suoi covi, neanche dopo la scomunica di Papa Francesco ai mafiosi in quanto «adoratori del male» e il suo «pressante invito» affinché si convertano e aprano il cuore a Dio.

In un «pizzino» del maggio del 2013, a due mesi dell’elezione del Papa e nei giorni della beatificazione di padre Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso dalla mafia, Messina Denaro aveva espresso la volontà testamentaria di rifiutare una celebrazione religiosa «perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato», rivendicando in un altro biglietto, un «rapporto personale con Dio, senza intermediari». La cosa non sorprende. Il mafioso ha sempre cercato una sponda religiosa per accrescere il suo potere e la sua fama di «uomo di rispetto». Ma con il celebre discorso di Wojtyla nella Valle dei Templi di Agrigento, nel 1993, e dopo la morte di Puglisi, ogni ambiguità non è più possibile. La Chiesa degli ultimi decenni è una Chiesa antimafia, senza se e senza ma. Logico che un boss feroce come Messina Denaro la veda come il fumo negli occhi, appellandosi a un rapporto diretto col suo dio, a immagine e somiglianza del boss, che è solo una delirante megalomania che scambia il Padre col padrino. Ma anche a lui è stato dato di pentirsi e quel che è avvenuto nel suo cuore in questo momento lo sa solo Dio. Il Dio del Vangelo, non dei padrini.

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