Gioele Dix racconta Gaber: uno spirito libero che anticipava i tempi

L’INTERVISTA. Sabato 5 aprile l’attore sarà al Cineteatro Gavazzeni di Seriate con il suo omaggio al talento inimitabile del «Signor G», un viaggio tra canzoni inedite e memorie. «Racconto il modo di vederlo e di conseguenza anche me stesso».

Con lo spettacolo «Ma per fortuna che c’era il Gaber» sabato 5 aprile, alle 21, Gioele Dix porterà sul palcoscenico del Cineteatro Gavazzeni di Seriate l’avventura umana e professionale di Giorgio Gaber (la data sostituisce quella del 4 aprile, precedentemente programmata. I biglietti per lo spettacolo sono disponibili su ticketone.it e alla biglietteria del Gavazzeni, quelli acquistati per il 4 aprile restano validi; per informazioni: 035.294868). Accompagnato da Silvano Belfiore al pianoforte e Savino Cesario alle chitarre, Gioele Dix renderà omaggio al talento del grande artista milanese, alternando brani conosciuti del suo repertorio con monologhi abbozzati e canzoni mai eseguite dal vivo.

Il titolo del suo spettacolo lascia intendere che è stata una vera fortuna che personaggi come Gaber abbiano calcato le scene italiane. Ma è una fortuna che ci meritiamo? Abbiamo compreso davvero il loro messaggio?

«Faccio parte del pubblico che ha seguito fedelmente Gaber sin dai suoi inizi a teatro nei primi anni Settanta. Ero un ragazzo e quando lo vidi ne rimasi folgorato. Pensavo di andare ad assistere a un semplice concerto, ma ho capito subito che si trattava di qualcosa di più: una riflessione profonda su argomenti che ci riguardavano, fatta con grande divertimento e coinvolgimento. Il titolo del mio spettacolo è una citazione della sua canzone “Per fortuna che c’è il Riccardo”, che risale ai tempi in cui Gaber faceva musica pop senza essere allineato con la musica dell’epoca, contaminandosi con la realtà, raccontando il mondo dei bar e della città, un mondo a cui la canzone melodica italiana pareva impermeabile. Quindi direi che un artista come Gaber se lo sono meritato tutti coloro che se lo sono goduto. Se n’è andato troppo presto e ci manca molto: era un cantante e un performer dotato di una fantastica forza comunicatrice. Io l’ho conosciuto molto bene e con un po’ di presunzione tipica del fan accanito cerco di raccontarlo attraverso il suo percorso, anche grazie a canzoni e testi inediti forniti dalla Fondazione Gaber. Racconto il mio modo di vederlo e di conseguenza racconto anche me stesso. Gaber ha sempre anticipato i tempi e sarebbe stato interessante capire che visione avrebbe avuto dei social».

«Mi piace paragonare l’attore di teatro al panettiere, un mestiere che ho fatto da ragazzo e che purtroppo sta scomparendo. Il panettiere non può sbagliare il pane, perché il pane è sacro. Ogni notte deve dare il massimo per realizzare un pane perfetto. Proprio come l’attore a teatro»

Giorgio Gaber ha intercettato gli umori di una generazione forse complessa e contraddittoria, ma vitale e inquieta, con la voglia di cambiamento. Oggi questa inquietudine sembra essersi spenta. Non sappiamo più arrabbiarci?

«Penso sia diventato difficile individuare dei “nemici”, non sappiamo non chi prendercela. Faccio un esempio banale legato agli operatori telefonici: rispondiamo a una voce registrata con cui non si può dialogare o a una voce gentile che dice di non poter fare nulla per risolvere il nostro problema. È in atto una sorta di spersonalizzazione. Però la voglia di confrontarsi e anche di arrabbiarsi c’è ancora. Il teatro secondo me è una buona terapia in questo senso, in quanto rappresenta un’occasione di riflessione e di incontro. Carta stampata e cinema sono purtroppo in crisi, mentre la gente continua ad andare a teatro, perché il teatro è un luogo antichissimo dove prima o poi tutti gli artisti tornano. Io lo coltivo con gioia e spero di continuare fino a quando il fisico reggerà. Mi piace paragonare l’attore di teatro al panettiere, un mestiere che ho fatto da ragazzo e che purtroppo sta scomparendo. Il panettiere non può sbagliare il pane, perché il pane è sacro. Ogni notte deve dare il massimo per realizzare un pane perfetto. Proprio come l’attore a teatro».

Gaber è un artista che non si è mai fatto ingabbiare, è rimasto completamente libero. È ancora possibile per gli artisti di oggi aspirare a questa forma di libertà?

«Essere completamente liberi è impossibile e nemmeno Gaber lo era. La libertà assoluta non esiste, tutti noi siamo sempre beneficamente condizionati dagli altri. Esiste la possibilità di essere liberi nel pensare e nel fare delle scelte ed è una forma di libertà che ti devi conquistare con fatica. Mi sento libero nel fare i miei spettacoli, anche se ci sono sempre dei condizionamenti. Ad esempio è difficile liberarsi dal peso delle aspettative degli altri: lo vediamo quotidianamente nei rapporti tra genitori e figli. Gaber aveva senza dubbio uno spirito libero: ha deciso di abbandonare la carriera di cantante pop, ha sempre rilasciato poche interviste e si è dedicato solo a ciò di cui era appassionato. Si tratta di una grande forma di libertà, che gli è stata possibile grazie al fatto di essere sempre stato molto esigente con sé stesso. La libertà te la conquisti con fatica».

«Non sono contrario al progresso, anzi cerco continuamente di aggiornarmi, perché penso sia necessario capire il cambiamento. Ciò non toglie che il cambiamento possa portare a un impoverimento sul piano della curiosità e di conseguenza a un appiattimento del pensiero. L’italiano è una lingua ricchissima e meravigliosa e usare bene le parole significa pensare. La parola è pensiero: se pensi poco, pensi semplice e pensi male»

Durante la sua lunga carriera, dopo un periodo di crisi lei ha deciso di creare i suoi personaggi senza aspettare che le proponessero una parte. Come li costruisce?

«Ho avuto un inizio di carriera molto brillante, lavorando con un grande maestro come Franco Parenti. Poi ho avuto una battuta d’arresto. Era un momento storico in cui non esistevano più le grandi compagnie teatrali e il mondo dello spettacolo era pronto per i solisti: penso a Bisio, a Paolo Rossi, a Giobbe Covatta, che come me si sono fatti coraggio per trovare un proprio stile. La comicità funziona se è diretta e arriva dritta al cuore delle persone. Far ridere è la cosa più difficile. Ho iniziato a proporre al pubblico degli autoritratti, come il personaggio dell’indeciso o dell’automobilista arrabbiato, che rappresentano alcuni lati della mia personalità. E in pochi mesi ho avuto un grande consenso da parte del pubblico. Molti battutisti cercano di stupire con la volgarità, attraverso la battuta fine a sé stessa: si tratta di una comicità che per il mio gusto non funziona, perché capisco che non c’è nulla di vero in loro. Secondo me coglie nel segno solo chi ti racconta con autoironia qualcosa di vero, che lo riguarda e che ti riguarda, in cui posso cogliere qualcosa di me».

Dietro i suoi monologhi c’è una grande attenzione al linguaggio, un grande amore per la parola, scritta e parlata. Come giudica l’uso che si fa oggi della parola, soprattutto con l’avvento dei social?

«Nella sua canzone “La razza in estinzione” Gaber dice di avere fatto parte di una generazione che ha provato a cambiare. Questo significa dichiarare di avere perso. Io non sono così pessimista, secondo me abbiamo pareggiato. Gaber dice “la tecnologia ci porterà lontano, ma non c’è più nessuno che sappia l’italiano”. Non sono contrario al progresso, anzi cerco continuamente di aggiornarmi, perché penso sia necessario capire il cambiamento. Ciò non toglie che il cambiamento possa portare a un impoverimento sul piano della curiosità e di conseguenza a un appiattimento del pensiero. L’italiano è una lingua ricchissima e meravigliosa e usare bene le parole significa pensare. La parola è pensiero: se pensi poco, pensi semplice e pensi male».

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