Emergenza carceri, serve un nuovo Umanesimo

ITALIA. Esiste un modo per affrontare il drammatico problema delle carceri italiane che non sia quello trito e ritrito della polemica politica messa in scena in questi giorni?

Che non sia la solita contrapposizione ideologica fine a se stessa, incapace non solo di trovare soluzioni adeguate, ma persino di partire da una base di discussione oggettiva e intellettualmente onesta? La domanda è d’obbligo, perché la delicatezza e la complessità del tema impongono un approccio che metta al bando qualunquismi e improvvisazioni, come quelle a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane.

Governo e opposizioni si sono scontrati per giorni su un documento che forse non meritava tanta attenzione, non foss’altro perché di fatto contiene solo norme di rimando, un mucchio di promesse insomma, di buone intenzioni, ma non interventi immediati, ciò che invece sarebbe necessario per fronteggiare la pesante situazione in cui versano gli istituti di pena. Del resto, se il decreto fosse vagamente esaustivo sul fronte, che senso avrebbe - a documento approvato - la richiesta del ministro Nordio di incontrare (a settembre…) il Capo dello Stato per discutere cosa fare per contenere il problema del sovraffollamento, causa principale del malessere che si respira in cella? E che senso avrebbero le interlocuzioni fatte con la premier e qualche altro ministro quando in Aula si stavano ancora votando i provvedimenti voluti dal Guardasigilli? È evidente che il tempo di scelte coraggiose e di risposte certe, chiesto alla politica mesi fa dal presidente della Cei cardinale Matteo Zuppi, anziché di quello fatto di opportunismi, di risposte precarie e sempre parziali, non è ancora arrivato. E chissà mai quando arriverà.

Pur nell’ovvia necessità di discuterne all’interno delle istituzioni dello Stato, la condizione carceraria è un insieme così complesso, fragile, estremamente doloroso e lacerante che non può essere preso in esame con superficialità e ideologismi di partito, ma richiede una sorta di «macerazione» interiore del tema anche da parte di ciascuno di noi, che siamo al di qua delle sbarre solo per un fortuito caso della vita, solo perché altri ci hanno messo nelle condizioni di poter scegliere tra il bene e il male, mentre molti di coloro che sono «dentro», nella loro vita non hanno mai avuto altra possibilità di scelta se non quella di seguire il male. «Fu antica miseria o un torto subito a fare del ragazzo un feroce bandito» canta De Gregori ne «Il bandito e il campione», e spesso è davvero così. In carcere - non dimentichiamolo mai - non sono rinchiusi solo i detenuti, ma - con loro - ci sono le mogli e i mariti, i figli e i genitori, i parenti, gli amici, «ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta…». Ma gli «ospiti» di un carcere non finiscono certo qui. Ci sono gli agenti penitenziari, che spesso portano l’angoscia del loro lavoro all’interno delle proprie famiglie, ci sono gli addetti ai servizi, c’è chi deve dirigere, coordinare, scegliere come gestire una vita-non vita come quella che si «vive» dentro quelle mura. E poi ci sono le tensioni morali di chi di quel mondo si deve occupare: legislatori, magistrati, avvocati, sacerdoti…

Quasi venticinque anni fa ormai, alle porte del Giubileo del 2000 e proprio a Bergamo, l’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, s’interrogò con un’intima e sofferta riflessione sulla condizione carceraria, sulle contraddizioni e le sofferenze che la pena definitiva vorrebbe risolvere e però, di fatto, non risolve. «Quanto è umano ciò che stanno vivendo i carcerati? - si chiedeva dal palco del Centro congressi il 2 maggio del 2000 -. Quanto è efficace per una tutela adeguata della giustizia? Quanto serve alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Che cosa ci guadagna e ci perde una società da un sistema del genere? Risponde veramente al bisogno delle vittime e al bisogno della difesa dei cittadini?». Ma dopo questi interrogativi «di carattere immediato», il metropolita di Milano ne proponeva un altro, ancora più netto e profondo: «Quale visione globale di uomo e di società corrisponde al nostro sistema penale, e quale idea di giustizia esso rappresenta?». Il nocciolo della questione sta tutto qui. Il crimine deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega né la distrugge, osserva Martini. Ed è proprio da qui che bisogna partire: giustizia e istituto di pena hanno ragione di esistere solo se affermano, sviluppano e recuperano la dignità di ogni persona, il tutto senza cadere in un inutile e dannoso «perdonismo». Il carcere come emergenza, «per fermare chi calpesta i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile», il carcere come luogo «di austera socializzazione». Ogni società civile di questo mondo si serve del carcere per punire chi sbaglia, ma il carcere non può essere l’unica soluzione alla domanda di sicurezza di una comunità. Certamente è la più comoda, con il rischio - oggi purtroppo una realtà diffusa - che anziché essere un istituto di pena sia un istituto in cui si infliggono pene che si sommano alla condanna. Ma così non può essere, come la moltiplicazione delle carceri non può essere la soluzione per ridurre il sovraffollamento. Attualmente nelle carceri del nostro Paese ci sono 61.140 detenuti per 46.982 posti disponibili, con un livello di sovraffollamento nazionale che ha ormai superato il 130%. È umano tutto ciò? Sapendo che un surplus di presenze non consente di avere un rapporto normale nella comunità carceraria, non favorisce i percorsi di recupero e non consente ai servizi di funzionare al meglio? Degli oltre 28mila detenuti che stanno scontando pene definitive o pene residue fino a tre anni di reclusione, 23mila e rotti potrebbero accedere alle misure alternative, ma restano in cella perché mancano i fondi per pensare nuovi progetti e potenziare le comunità. E a restare in carcere, anziché uscire, sono spesso i più fragili, senza un lavoro o senza una casa. Così facendo, in molti istituti di pena (e non solo italiani) si uccide la speranza, ed è proprio in questo contesto che si inserisce la tragica piaga dei suicidi in cella, 62 dall’inizio dell’anno al 4 agosto scorso. Chi oltrepassa quei cancelli prende coscienza dell’annullamento della speranza o subito dopo l’arresto, quando si vede privato di ogni libertà nel tempo di un battito di ciglia, oppure sul finir della pena, quando realizza che una volta «uscito» la società non sarà in grado di accoglierlo e di ridargli una vita, la speranza, il futuro.

Per il sistema carcerario italiano serve dunque un nuovo Umanesimo, l’Umanesimo della Misericordia, che ci aiuti ad immaginare che anche chi ha compiuto il delitto più grande sia comunque più «grande» del delitto commesso. È l’insegnamento di Papa Giovanni, che nell’enciclica «Pacem in Terris» distingueva tra errore ed errante. Nemmeno la giustizia basta a se stessa, perché anche la giustizia ha bisogno di compassione e di misericordia. Misericordia e compassione non sono un rimedio al male fatto, ma la condizione senza la quale nessuno vivrebbe un giorno di più. Un tempo il ministero che governa il sistema carcerario era definito «di grazia e giustizia», oggi - invece - è «di giustizia» e basta. Ma senza grazia - che per chi crede è la Misericordia di Dio - cos’è la giustizia? Il rischio è che sia solo giustizialismo.

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