Dopo l’Armistizio 30mila nei lager: «La mia vita per ricordare la loro»

LA RICERCA. Monzio Compagnoni da 8 anni si dedica alla storia degli internati bergamaschi: «Solo i parenti del 10% di coloro che furono deportati ha ricevuto la medaglia d’onore».

Furono circa 650mila militari - a cui vanno aggiunti almeno 100mila civili - gli italiani che dopo l’8 settembre del 1943 finirono nei campi di internamento tedeschi. Vicende complesse, talvolta difficili da ricostruire, spesso poco considerate dalle narrazioni di storia. Anche tra i bergamaschi gli Internati militari italiani (Imi) furono tantissimi. «Sono sempre più convinto che il numero di 30mila che avevo ipotizzato qualche anno fa sia vicino al vero». A dirlo è Maurizio Monzio Compagnoni, di Gazzaniga, membro dell’Associazione nazionale reduci dalla prigionia e dall’internamento (Anrp), che in provincia da ormai otto anni si sta dedicando alla ricostruzione della storia degli Imi, alla ricerca dei loro parenti e alla gestione delle pratiche per il riconoscimento delle medaglie d’onore assegnate dal Presidente della Repubblica.

Tra di loro ci sono quei militari che dopo l’armistizio proclamato da Badoglio l’8 settembre del ‘43 scelsero di non aderire alla Repubblica sociale italiana e alle forze armate tedesche e subirono rastrellamento e deportazione. Ma anche civili, che si trovavano in Germania per lavoro, ai quali già nel luglio precedente fu impedito il ritorno, e ancora alcuni civili rastrellati in Italia, come partigiani, politici e sacerdoti. «Oggi poco meno del 10% dei bergamaschi internati ha ricevuto la medaglia» riferisce Compagnoni, che aggiunge con il sorriso: «Sicuramente io non vedrò la fine di questo lavoro di ricostruzione».

Le medaglie

Sono circa 270 le medaglie d’onore - assegnate dal Presidente della Repubblica - che dovrebbero essere consegnate nei prossimi mesi, per mano del Prefetto di Bergamo, alle famiglie degli Imi bergamaschi. «Tra le donne che figurano negli elenchi, c’è anche una religiosa originaria di Grone, suor Rachele Pasinetti – contonua Compagnoni –. Nata nel 1912, si trovava già in Germania dal 1940. Con ogni probabilità, al pari di altri preti e suore, si era recata lì per prestare assistenza spirituale ai tanti lavoratori italiani emigrati». Ed è sempre rimasta oltreconfine. «Fu internata nella zona di Ingolstadt. Anche dopo la liberazione rimase in Germania, dove morì nel 1986». La ricerca di informazioni su di lei non è stata semplice. «Sono arrivato al suo nominativo cercando nell’archivio online di Arolsen il cognome Pasinetti. A Grone abbiamo rintracciato alcuni nipoti, che erano però poco informati su di lei, proprio perché ha sempre vissuto in Germania».

Tra i parenti degli Imi, c’è anche chi arriva da molto lontano per l’attesa della consegna della medaglia d’onore. «Torneranno dall’Australia nei prossimi mesi i figli di Agostino Castelli, di Gandino, classe 1923, che fu internato al pari di suo padre, Angelo Amadio, classe 1895». I due vissero vicende parallele anche se l’inizio dell’internamento fu diverso. «Erano originari della frazione Barzizza. Angelo Amadio, da civile, è stato internato nel lager di Wolfsburg, Agostino invece, che era un militare dell’Ottavo reggimento bersaglieri, a Luckenwalde e nel lager di Diephloz. La famiglia racconta che ebbero anche un periodo iniziale comune: può essere che sia stato così, anche se dai documenti non risulta».

Oltre 2.000 bergamaschi morti nei campi

Suor Rachele è solo una delle tante donne che figurano tra i nomi dei civili internati: «Secondo i miei calcoli – aggiunge Compagnoni – furono tra 2.000 e 2.500 i bergamaschi che morirono nei campi, mentre gli altri tornarono dopo la liberazione». Ma non per tutti coloro che si salvarono questa fu una via d’uscita semplice e immediata. «Alcuni sono stati liberati dagli Angloamericani e sono rientrati subito in Italia, compatibilmente con la disponibilità di mezzi dell’epoca. Quelli invece liberati dai Russi sono stati portati per alcuni mesi verso Est e utilizzati da loro come manodopera, quindi hanno avuto un’ulteriore situazione di costrizione per qualche mese».

La domanda per il riconoscimento della medaglia d’onore richiede la presentazione di un documento che riporti la data di cattura e quella di liberazione, oltre alla data di nascita. Per i militari, si tratta solitamente del foglio matricolare. «Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri c’è una commissione che si riunisce due volte all’anno e valuta le domande: se la documentazione è chiara e completa, la domanda viene accettata seduta stante, altrimenti viene chiesta un’integrazione».

Il lavoro di Compagnoni

Compagnoni, oggi 62enne, porta avanti dal 2018 questo lavoro di ricerca cercando di volta in volta la collaborazione delle Amministrazioni comunali. «Dovrebbero impegnarsi tutte per il ricordo di questi loro concittadini. Per fortuna ho trovato in alcuni paesi alcune persone sensibili che si sono date da fare per questo, in alcuni casi appassionati di storia che già si occupavano di storia».

Tra i casi più virtuosi c’è quello di Tavernola: «Questo Comune ha già più di 40 medagliati – riferisce ancora Maurizio Monzio Compagnoni –. Qualche anno fa ho consegnato all’allora sindaco Ioris Pezzotti un elenco con i nominativi di tutti gli internati, lui si è impegnato per trovare sostanzialmente tutti i parenti. Ne mancano solo poche persone, per le quali probabilmente non ci sono eredi. Tutti gli internati di Tavernola hanno avuto così il riconoscimento della medaglia d’onore».

Tra i Comuni che vantano il maggior numero di internati, c’è Albino: «Furono oltre 400 tra militari e civili, ma numeri importanti ci sono anche in altri Comuni di tutta la Provincia di Bergamo».

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