Da Draghi dialettica e verità sull’Europa

MONDO. Del rapporto presentato da Mario Draghi, intitolato «Il futuro della competitività europea», le nostre classi dirigenti potrebbero fare tesoro in tanti modi.

Perfino chi – legittimamente - non condividesse il corposo contributo curato dall’ex presidente della Banca centrale europea potrà trovarvi sicuramente informazioni utili o spunti di riflessione originali. Per non parlare, poi, degli attuali esponenti dei governi nazionali dell’Unione o dei futuri componenti della Commissione europea, che avranno a disposizione 170 proposte praticamente «chiavi in mano» per i prossimi anni.

Soprattutto, però, Draghi ha il merito di aver pienamente riabilitato – nelle pagine del rapporto, e soprattutto in un’ora e venti minuti di conferenza stampa ieri – un europeismo che si apre alla dialettica e ricorre a parole di verità, rottamando un europeismo di natura diversa che invece preferisce la retorica e la lingua di legno. Da circa un quindicennio, forse sotto la «pressione» dei cosiddetti populisti e per la paura di esserne elettoralmente travolti, una grande maggioranza degli europeisti ha brandito – magari in modo inconsapevole – una lettura ortodossa del processo d’integrazione, ammantata sempre e comunque di magnifiche sorti e progressive per Bruxelles, perlopiù impermeabile a ogni forma di dubbio e critica.

Un atteggiamento, senza ombra di dubbio, distante anni luce da quello intrinsecamente critico e sferzante – e perfino anti-establishment – di alcuni degli stessi padri nobili del federalismo europeo, come Altiero Spinelli o Ernesto Rossi. Così, tra migliaia di «agende» e «position paper» buoni per tutte le stagioni della bolla brussellese, quasi non pensavamo più di poter leggere che l’Europa ha di fronte a sé «una sfida esistenziale», come ha scritto l’ex presidente del Consiglio Draghi nella premessa, oppure addirittura che «se l’Europa non riuscirà a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, allo stesso tempo, un leader nelle nuove tecnologie, un faro di responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni». Come anche, fino a ieri, sarebbe stato inconcepibile ascoltare, da un podio posizionato al fianco di quello della presidente della Commissione europea von der Leyen, che l’Unione «non è in un momento del tipo “agisci o muori” – ha spiegato Draghi - ma in un momento “o fai così o sarà una lenta agonia”».

C’entra anche, se non soprattutto, il malessere demografico che affligge il nostro continente: «Questo è il primo anno in cui l’Europa non può contare sull’aumento della popolazione per la propria crescita. Anzi, ci si attende che la popolazione diminuirà costantemente, al punto che dal 2040 scompariranno due milioni di lavoratori ogni anno». E poi Draghi ha aggiunto, ancora una volta senza giri di parole: «Siamo una società che fondamentalmente si rimpicciolisce. L’impressione di una morte improvvisa sarà nascosta dal fatto che siamo sempre di meno, quindi condividiamo una torta sempre più piccola tra un numero sempre più esiguo di persone. Non percepiamo il dramma».

Ma il «dramma» c’è eccome, ecco il messaggio principale che ci ha consegnato ieri Draghi. Soltanto se accettiamo di rottamare le tesi auto-consolatorie e le ortodossie buone a nulla, solo insomma se condivideremo la diagnosi della «sfida esistenziale» che fronteggia l’Europa, allora potremo dedicarci con sufficiente impegno e legittimazione politico-democratica a trovare le soluzioni necessarie. In primo luogo, la necessità di «colmare il divario in materia di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, in particolare per quanto riguarda le tecnologie avanzate». (A questo proposito Draghi ha evocato uno studio, già analizzato su queste colonne, sulla staticità ventennale delle aziende europee che primeggiano nella ricerca e nello sviluppo, specie in confronto alla concorrenza americana dove i settori di specializzazione sono invece molto cambiati). In secondo luogo, decarbonizzazione e competitività devono procedere assieme: «Se non riusciamo a coordinare le nostre politiche – scrive Draghi – c’è il rischio che la decarbonizzazione finisca per andare in senso opposto rispetto a competitività e crescita». Infine la terza area d’intervento consiste nell’«aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze». Hic Rhodus, hic salta.

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