Cosa ci insegna la tragedia del Gleno oggi

L’EDITORIALE. «Bettineschi senza nome, 3 ore». Di lui, o lei, non sappiamo nulla. Né se fosse maschio, né se fosse femmina. Sappiamo solo che oggi, se questa vita fosse ancora tra noi, compirebbe 100 anni. Invece visse solo 3 ore. Forse il tempo di sentire per una volta il calore della sua mamma, dopo il parto, nella notte tra il 30 novembre e l’1 dicembre 1923.

Visse 3 ore, fino alle 7,15 dell’1 dicembre, quando la bestia d’acqua del Gleno sfondò la sua gabbia e venne giù devastando la Val di Scalve. E quella vita fu spenta senza che nei suoi occhi potesse mai entrare nemmeno un raggio del sole. La lista delle vittime del disastro del Gleno che pubblichiamo a pagina 28 racconta molto più dell’arido numero che sempre ripetiamo. «359 vittime accertate» è la frase che ricorre. Diverso è vedere i nomi, i cognomi accostati che si fanno famiglie intere portate via, forse senza mai nemmeno una tomba. Forse, senza nemmeno più un parente che su quella tomba avrebbe potuto posare un fiore.

Oggi sono 100 anni, e se 50 anni fa su queste colonne il direttore mons. Andrea Spada scriveva denunciando la solitudine della Valle di Scalve nell’opera di ricostruzione, eccezion fatta per «un asilo e due o tre case costruite da Milano», oggi non possiamo non constatare che la situazione non è tanto diversa. La Valle di Scalve ha provato a spalancare le sue porte, per questo centenario. Ha invocato che il suo dolore venisse condiviso, conosciuto, capito. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con la sensibilità che da sempre lo distingue, regalerà un pensiero al disastro del Gleno e una carezza alla gente di Scalve. Per il resto, c’è la sensazione che cent’anni non siano bastati per trasmettere fuori dai confini di Bergamo la profondità di questo dramma.

Eppure, basta sottrarre alla frenesia quotidiana qualche minuto per scorrere la lista delle vittime e, soprattutto, per soffermarsi sulle età. Fu una strage di bambini: 64 avevano meno di 10 anni. Il disastro ha tolto alla Val di Scalve, e dunque alla nostra terra, un pezzo di futuro. L’irresponsabilità non di chi indicò la necessità di un bacino idroelettrico, ma di chi lo costruì male, ha causato tutto questo. I processi si fanno nelle aule, certo. Ma la storia è storia. Come ha spiegato sul giornale di ieri il geografo Mauro Varotto, il male non era la diga: il male era la diga costruita così. «Stupenda», la definisce mons. Spada su L’Eco del 1973 ripensando alla struttura al netto del marciume annesso e connesso. Oggi il disastro del Gleno, quell’immane tragedia, quel fiume infinito d’acqua e lacrime possono e devono dire ai più giovani, quelli che magari di Gleno non hanno mai sentito parlare, una cosa semplice. Questa: qualsiasi cosa si faccia, occorre farla con responsabilità, con etica, con coscienza, pensando all’altro prima che a se stessi, pensando alle conseguenze di ciò che si fa prima che al profitto, al fatturato, alla cassa.

Perché là dove le regole non si rispettano si pongono le basi, le premesse, perché qualcuno paghi un conto. Magari anche con la vita, magari anche con 359 vite, magari con una strage di bambini. Là dove, invece, un lavoro viene fatto con «la diligenza del buon padre di famiglia», allora le opere servono e le vite si salvano. Questo ci dice il Gleno oggi, mentre viviamo un periodo di drammatico aumento dei morti sul lavoro, dei morti sulle strade. Perché troppo spesso non importa come, ma occorre arrivare in fondo a ciò che si deve fare. Vincono sempre la fretta al volante, l’impossibilità di rimandare alcunché, la frenesia sui cantieri e nelle aziende che magari fa scavalcare qualche prudenza, qualche norma: che vuoi che sia, lo faccio solo stavolta. Ma non si può abbruttire l’uomo e poi chiedergli coscienza e senso di responsabilità, strillò un parroco della Valle durante i lavori di costruzione. Aveva capito, prima: è quel che occorrerebbe fare oggi, cent’anni dopo. Capire prima, per non piangere - sempre - poi.

Alle 7,15 di questa mattina le campane di tutte le chiese di Scalve suoneranno. In quel momento i cuori della valle torneranno indietro di cent’anni, a quel crollo, a quelle vite portate via e negate, in tantissimi casi, persino alla sepoltura. Portate chissà dove, per sempre. Si fermi, per un momento, non solo la gente di Scalve. E chi può mandi un pensiero e una carezza a quel «Bettineschi senza nome» che visse solo tre ore, senza mai vedere nemmeno un raggio del sole.

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