Con le Palme entriamo nella storia di Gesù

IL COMMENTO. La Domenica delle Palme è la festa liturgica attraverso cui la Chiesa rivive l’episodio evangelico di Gesù che entra trionfalmente a Gerusalemme, accolto dalla folla in visibilio.

Cori entusiasti, roteanti rami di palma e di ulivo, frasche e mantelli che apparecchiano la strada al suo passaggio: è una standing ovation da sogno per l’umile figlio del falegname. Una passeggiata insperata nella Walk of Fame della capitale, con tanto di red carpet nostrano e di onori da star. Sembra il preludio delle favole migliori. Ma una manciata di giorni più tardi, saranno quelle stesse bocche osannanti a pretendere la sua crocefissione, e quelle stesse mani esultanti a percuoterlo con disprezzo. Quelle bocche e mani che appartengono alle persone a cui Gesù ha guarito figli, ha restituito alla vita nipoti, ha predicato bellezza e regalato speranza.

Ma la Domenica delle Palme non vuole mettere in scena il dramma universale dei voltafaccia umani. Sarebbe solo una versione più nobile e antica della comune parabola discendente riservata a chi cerca di cavalcare l’ottovolante dei like sui social media: gli stessi che incensano, il giorno dopo infieriscono sulle ceneri, senza alcun riguardo né pietà. Siamo tristemente pieni della ferocia delle delusioni. Ma mai sazi, a quanto pare.

La Domenica delle Palme ricorda piuttosto l’ingresso di Gesù nella Città Santa, perché ancora chiede ai cristiani di entrare nel loro spazio più santo: la settimana della passione, morte e risurrezione del loro Signore. Lì, dove l’universo e la vita prendono proporzioni diverse rispetto ai criteri del mondo. La Domenica delle palme è dunque un portale, una soglia per accedere al cuore del mistero della fede, da cui la Chiesa è chiamata a riceversi e a ricomprendersi. Se non passa di qui, se non entra nella storia di Gesù fino in fondo, la Chiesa rischia di lasciarsi raccontare dai suoi successi e dalla sua popolarità, dal consenso che viene dallo sguardo umano, o dall’applauso del mondo. Mentre la sua identità e la sua verità stanno nell’abitare il Vangelo e nel custodire la storia del suo Signore. Lasciandosi modellare e purificare dall’esperienza del Getsemani, della croce e del sepolcro: da qui si capisce e si vede qualcosa di Dio che non è misurabile con gli indici di gradimento. La Settimana Santa è la grande esperienza da cui la Chiesa rinasce ogni giorno.

In questa domenica di palme e ulivi, dunque, vengono messi al centro tre movimenti che equipaggiano la vita dei credenti in modo nuovo, per poter attraversare la Settimana Santa in modo non ingenuo e non mondano. Perché il rischio è di interpretare la Pasqua da curiosi più che da fedeli. Senza queste tre attenzioni, la fine della vicenda del Nazareno sarebbe la morte ingiusta di uno dei tanti innocenti della storia; e la Chiesa si immaginerebbe in modo non troppo diverso da un ente del Terzo settore che, per rimediare a questa ferita originaria, si immola nella missione infinita di prendersi cura dei mali del mondo. Ma sarebbe troppo poco.

Primo movimento. Gesù è accolto come un re. Lui, l’uomo di Nazareth: con la sua attenzione agli ultimi, con il suo sguardo privilegiato ai piccoli, con le sue parole che sostengono i passi delle esistenze traballanti e che riparano le vite distrutte dal male a cui hanno dato spazio. Nel suo fare c’è una signoria, una regalità che chiede di essere accolta, anche quando è impopolare perché occupa l’ultimo posto: per entrare nella Pasqua occorre essere disposti a vivere il suo stile, a fare come lui. È lui il re.

Secondo movimento. Gesù cavalca un asino e non un cavallo. Il primo è l’animale regale dei viaggi di pace, il secondo è la cavalcatura delle spedizioni militari. Nel fare di Gesù c’è in gioco una pacificazione profonda per il cosmo e per la storia, non perché risponda a un progetto politico, ma a un’intuizione spirituale: la pace che egli promette comincia dalla disponibilità personale di lasciarsi cambiare il cuore e la mentalità. È l’esigenza della conversione.

Terzo movimento. È acclamato come il figlio di Davide. Come il Messia che compie una promessa antica, segno di un’amicizia con Dio che è fedele e che non viene meno. Non si può entrare nella Passione del Signore, senza fare memoria della lunga storia di fedeltà di Dio al suo popolo. Si assisterebbe da schiavi degli eventi e del dolore, non da credenti, cioè da custodi per tutti di una speranza e di un legame che non deludono.

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