Caporalato nei campi: l’80% lavoratori stranieri. «Sottopagati e senza tutele»

IL REPORTAGE. Nell’agricoltura il fenomeno è presente soprattutto in pianura. I sindacati: «I casi vengono segnalati, ma difficilmente poi ci sono denunce»

Nel gergo si chiamano «guru». Sono gli esponenti delle varie etnie che hanno il compito di arruolare le persone che, a chiamata, vanno a lavorare nei campi, soprattutto della nostra pianura, dove il fenomeno del caporalato è purtroppo presente da anni. In alcuni terreni si vedono sterminate serre, all’interno delle quali lavorano quasi soltanto extracomunitari.

«Nell’agricoltura e nella logistica l’80% dei lavoratori è straniero – sottolinea Giacomo Ricciardi, segretario generale Uiltrasporti Bergamo –: sono le varie etnie a gestire i lavoratori e ci sono questi caporali, detti guru, che fanno da tramite tra i clienti e i lavoratori. In alcuni casi è emerso che chiedevano una prebenda proprio per il loro ruolo».

Il ruolo del «capetto»

Ruolo di chi gestisce delle persone, solitamente appunto appartenenti alla sua nazionalità, e che «le mette a disposizione» di loro connazionali che hanno agganci – è proprio il caso di dirlo – sul campo. Il «capetto» di fatto comanda e gestisce gruppi di connazionali che vengono selezionati per il lavoro più indicato, a seconda delle stagioni e delle necessità. Quella attuale è la stagione del raccolto delle insalate, che si protrarrà per tutta l’estate, con luglio indicato quale mese della lattuga perché dedicato alla raccolta di questa tipologia di verdura molto diffusa anche nei campi della Bergamasca. Purtroppo è un fenomeno che qualche volta arriva all’attenzione dei sindacati, ma molto meno alle forze dell’ordine: «Ci possono essere segnalazioni, ma spesso la paura di eventuali ritorsioni e di non poter più essere chiamati a lavorare – evidenzia ancora Ricciardi –, perché alla fine i gruppi sono tutti collegati tra loro, diventa un freno perché si arrivi alla denuncia specifica. Con gli altri sindacati abbiamo organizzato un progetto che riguarda proprio la Bassa bergamasca, in modo da diventare punti di riferimento per eventuali vittime». I caporali lavorano per etnie e i contatti avvengono spesso direttamente nei Paesi d’origine: può essere che lì venga diffusa la voce che in Italia si cercano lavoratori nei campi per alcuni mesi e che si organizzi il viaggio di gruppi di connazionali degli stessi caporali. Una volta nel nostro Paese, i contatti tra chi subisce il caporalato e persone che non siano i suoi connazionali arrivati con lui, o il caporale stesso, sono volutamente inesistenti.

Arrivato in Italia, inoltre, non è detto che il lavoratore a chiamata venga poi ingaggiato come promesso: se c’è meno lavoro, le chiamate sono minori e, di conseguenza, anche le paghe.

Il supporto dei gruppi

Le vittime non sanno mai con quanto in effetti potranno tornare in patria – nel caso si tratti di «pendolari» del caporalato – e, quindi, quanto potranno incassare nel periodo trascorso nei campi in Italia. E la situazione diventa ancora peggiore per chi vive in modo stanziale nel nostro Paese perché in possesso del permesso di soggiorno. In questi casi, infatti, possono passare anche settimane senza essere chiamati al lavoro.

Il fenomeno si basa comunque sull’appoggio di varie e numerose famiglie che, a seconda delle etnie, si supportano anche economicamente: se uno del gruppo familiare non viene chiamato a lavorare per qualche giorno, al suo mantenimento penseranno i connazionali invece ingaggiati. «Qui da noi, rispetto ad alcune zone del Sud Italia, il fenomeno del caporalato nell’agricoltura è comunque meno diffuso – aggiunge Mauro Rossi, segretario generale Flai, Federazione lavoratori agro industria della Cgil –, perché qui da noi nella Bergamasca è presente soprattutto il cosiddetto lavoro grigio: in busta paga vengono indicate tot ore e tot giorni di lavoro, ma nella realtà giorni e ore sono molte di più. E la differenza viene pagata in nero, senza alcuna tutela contrattuale».

La situazione tra i campi

Ma nei campi della nostra pianura, in effetti, cosa succede? In questi giorni, pioggia a parte, la raccolta delle verdure è entrata nel vivo e in tanti terreni coltivati sono al lavoro decine di persone. Impossibile, tuttavia, poter avere un dialogo con loro. Ci fermiamo nell’estrema Bassa, al confine con il Cremasco, dove una dozzina di ragazzi sono chini sui campi: non ci sono serre qui attorno. Stanno raccogliendo insalata.

Sorridono, ma nessuno vuole parlare. O, meglio, fanno capire di non saper parlare l’italiano. Impossibile andare oltre questo muro rappresentato dagli stessi lavoratori e comprendere se siano regolari o sfruttati dai caporali. Altra zona, la Bassa orientale, stessa situazione: all’ora di pranzo un gruppetto di ragazzi (le donne in questo settore sono una sparuta minoranza, o almeno così sembrerebbe) riposa su un muretto all’ombra vicino a delle serre. Cala però un silenzio imbarazzato quando si rivolge loro qualche domanda.

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