Antifascismo, la destra raccolga la sfida

ITALIA. Gli 80 anni che ci separano dal 25 Aprile, il giorno più lungo dell’Italia repubblicana e quello in cima al calendario civile, dovrebbero essere serviti a darci una coscienza antifascista collettiva.

Liberazione vuol dire Resistenza, partiti del Cln (cattolici, comunisti, socialisti, liberali e laici), quindi Costituzione: il punto di approdo della lotta armata dei partigiani e di fondazione dell’Italia democratica. La Costituzione del ’48 non sarà la più bella del mondo, ma è ciò che di meglio abbiamo saputo fare. Quest’anno, poi, la ricorrenza coincide con alcuni anniversari pieni: l’assassinio di Giacomo Matteotti (’24), la strage delle Fosse Ardeatine da parte dei nazifascisti (’44), la morte di Alcide De Gasperi (’54). Anche per questo il 25 Aprile andrebbe sottratto ai polemisti di giornata e a un clima contundente, per essere restituito alla pienezza storica di atto primario della convivenza civile e dello Stato di diritto. Non sempre è stato così, con una traiettoria altalenante: dalla massima estensione degli anni ’60-’70 alla fase fredda della Seconda Repubblica.

C’è stato un tempo però in cui i partiti, pur aspramente divisi, si ritrovavano comunque sui fondamentali. Anche perché quell’antifascismo era sorretto da una classe dirigente che sapeva di cosa parlava e cos’era l’essenza democratica. Il democristiano Aldo Moro, alla Costituente, definì inequivocabilmente antifascista la Costituzione. Il socialista Pertini amava ripetere: «Dico al mio avversario: io combatto la tua idea contraria alla mia, ma sono pronto a battermi al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, la possa esprimere sempre liberamente». Ci sono stati più antifascismi sia prima sia dopo il ’45, seguendo declinazioni differenti e talvolta anche distanti. Lo stesso concetto di antifascismo, con il tempo, è stato in parte tolto dal suo contesto storico per diventare uno strumento multiuso. C’è stato pure il mito della Resistenza tradita e questa distorsione era già toccata al Risorgimento.

Il 25 Aprile, l’esito di passioni coraggiose e plurali, parla alla storia e ci ricorda che i cattolici sono stati determinanti nel respingere le pressioni per una Costituzione afascista e per far prevalere un antifascismo condiviso, fondato sul rispetto della dignità umana, sul rifiuto della violenza e sulla promozione della persona. In sede di Costituente erano state esplicitamente escluse ideologie di parte, istanze rivoluzionarie e prospettive socialiste. De Gasperi – lo ha ricordato in questi giorni Beppe Tognon che guida la Fondazione trentina intitolata allo statista Dc – alla Conferenza di pace di Parigi parla da democratico antifascista, interpretando l’antifascismo nei termini di «pregiudiziale ricostruttiva» da mettere al servizio della ricostruzione nazionale e in una nuova prospettiva internazionale ed europeista dell’Italia.

Il valore della Resistenza dal campo armato a quello civile nel segno di un dovere di resistenza civile: «Le virtù della Resistenza devono essere anche virtù di oggi: spirito di abnegazione, fermezza di propositi, solidarietà di intenti». Per Moro, che vedeva in quella destra l’avversario più pericoloso in età repubblicana, l’antifascismo costituiva una piattaforma ideale e morale che vincolava partiti diversi a posizioni comuni in difesa della democrazia. Ci sono state varie forme di Resistenza: quella partigiana, dei soldati deportati in Germania, della solidarietà spontanea popolare agli ebrei, di una vicinanza silenziosa e invisibile della popolazione e dei sacerdoti alle forze partigiane. Un tessuto di solidarietà molecolare che ha portato alla formazione di una nuova identità collettiva e che ha smentito la teoria di una prevalente «zona grigia» attendista: «L’ insieme di questi elementi – ha scritto lo storico Pietro Scoppola – ha costituito una riserva morale radicalmente alternativa all’ideologia fascista e ha permesso al Paese di ricostruirsi su valori democratici». In un mondo cambiato e in un’Italia che aveva il più grande Partito comunista dell’Occidente, tutti oggi riescono a dirsi anticomunisti. A partire dai ragazzi di Berlinguer che, pur in ritardo e salvaguardando legittimamente la «via italiana», ha condannato la casa madre e da allora racconta un’altra storia. Lo stesso ultimo Berlusconi aveva smesso di dirsi anticomunista per mancanza di materia prima o semplicemente perché era diventata una causa persa.

C’è invece un pezzo del mondo di Giorgia Meloni che ancora non ha risolto i rapporti con il fascismo e che non riesce a chiamarsi antifascista. Fini si era spinto sino a definire il fascismo «male assoluto». Meloni ha fermato il suo ambiente all’ultimo miglio, nella zona neutra: né fascista, né antifascista, ma afascista. Da quel fortino sono giunte anche parole e atti sbagliati. Il problema politico si pone, perché lascia un vuoto valoriale rispetto ai principi della Costituzione. Può darsi che, nonostante la mole storiografica compresa quella revisionista, l’Italia, a differenza della Germania, non sia ancora riuscita a rielaborare dal versante culturale tutti i traumi del fascismo e le varie transizioni: dagli «anni del consenso» al regime alla generazione che «cercando la bella morte» s’è posta dalla parte sbagliata e infine al «tutti antifascisti» della Repubblica. Un processo che coinvolge tutti, ma che aiuterebbe la destra meloniana a maturare. Ammesso che lo voglia: l’onere della prova tocca a lei.

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