A Taiwan un equilibrio che va bene a tutti

MONDO. A dispetto della retorica, in parte giustificata, del duello tra «autocrazia» e «democrazia», è difficile capire chi abbia davvero vinto a Taiwan, il primo appuntamento elettorale di peso di un 2024 che, in decine di Paesi, manderà alle urne metà della popolazione mondiale.

Il Partito progressista democratico (Dpp) è riuscito a far eleggere alla presidenza Lai Ching-te, noto come William Lai, fino a ieri vice-presidente. E questa è la parte positiva per la formazione politica che si batte per l’indipendenza dell’isola, un allontanamento dalla Cina e un maggiore avvicinamento all’Occidente, e che con questa elezione ha ottenuto la terza presidenza consecutiva. Lai, un medico con studi a Harvard che è stato anche primo ministro (2017-2019), ha vinto in modo netto sui candidati del Kuomintang (distacco del 6,7%) e del Partito popolare di Taiwan (Tpp, meno 13,5%) e su questo non v’è alcun dubbio. In una prospettiva più ampia, però, le cose si fanno più complicate. Lai ha ottenuto il 40,1% dei voti, per il candidato del Dpp la percentuale più bassa dal 2000: Tsai Ing-wen, che lo ha preceduto ed era stata la prima donna a salire alla presidenza, era stata eletta con ben più del 50%. Non solo: in Parlamento il Dpp non è il primo partito, superato 52 a 51 dal Kuomintang nel Parlamento monocamerale con 113 seggi. Ovvio che le leggi più impegnative, per esempio quelle sull’incremento della difesa militare dell’isola, siano costrette alle forche caudine di estenuanti trattative e compromessi con gli altri partiti.

I numeri, quindi, e la pratica politica che i numeri impongono, ridimensionano gli slogan sia del fronte vincitore (libertà, sconfitta del comunismo e così via) sia della Cina, che ha accompagnato la marcia di William Lai con epiteti vari («piantagrane indipendentista» il più delicato) e con le abituali parole d’ordine sulla riunificazione di Taiwan alla Cina continentale. Nella realtà, poco dovrebbe cambiare rispetto a quanto abbiamo visto finora. Certo, Xi Jinping non rinuncerà alle sue pressioni: gli analisti già prevedono un’altra tornata di esercitazioni militari in primavera, quando a Taipei sarà celebrato l’insediamento di Lai. I funzionari di Pechino, poi, non mancheranno di far balenare qualche calibrata lusinga, soprattutto commerciale, ai leader degli altri partiti taiwanesi, quelli che possono decidere, in Parlamento, dell’approvazione o della modifica di qualunque legge.

Chi si aspettava una resa dei conti a breve termine nel Mar cinese meridionale, dunque, dovrà portare pazienza. Anche perché lo stallo, anzi la difesa dello «status quo» (la situazione per cui tutti trattano Taiwan come uno Stato autonomo senza riconoscerne l’indipendenza), conviene alle grandi potenze che su quel braccio di mare si fronteggiano. Da un lato la Cina, che considera l’isola parte integrante del proprio territorio. Pechino però non ha la forza politica per affermare le proprie convinzioni, come l’elezione di Lai tra le altre cose conferma. E non ha neppure quella militare per imporle. La guerra tra Russia e Ucraina è stata di lezione a Xi Jinping: un colpo di mano contro Taiwan metterebbe Pechino in una situazione simile a quella di Mosca, con un ampio fronte anticinese (Corea del Sud, Giappone, Australia…) che sarebbe pronto a radunarsi sotto le insegne degli Usa, con le sanzioni e quant’altro è già stato deciso nei confronti della Russia. Dall’altro gli Usa, che «usano» Taiwan come baluardo economico (è un polo dell’industria dei microchip) e politico (è al centro di rotte marittime decisive per i commerci mondiali) nei confronti dell’espansione della Cina, sono refrattari a provocare o gestire un conflitto da quelle parti. In parte perché sono già impegnati su molti fronti e in autunno andranno a elezioni presidenziali che si annunciano drammatiche. E in parte perché uno scontro aperto sconvolgerebbe proprio quel quadro di vantaggio economico e politico che Taiwan oggi garantisce.

La vittoria di William Lai, cioè dell’esponente di un partito che a Taiwan presiede ma non può governare, diventa così la soluzione migliore per tutti. La più gradita anche a chi, a parole, sembrava auspicare proprio quella opposta.

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