Cronaca / Hinterland
Domenica 23 Agosto 2020
«Covid, la guerra non è vinta
Non si deve mollare adesso»
Seriate, l’appello di Elena Alberti che lavora al Pronto Soccorso di Seriate.
«Certi atteggiamenti rischiano di vanificare gli sforzi che abbiamo fatto».
I numeri non sono quelli di marzo. Nemmeno si avvicinano. Ma quella curva che sale – sale, costantemente – preoccupa. E, se possibile, irrita pure: irrita se la si guarda con gli occhi ancora appannati da quelle immagini che arrivano dritte dritte dalle spiagge (mica solo quelle) piene come un uovo, da quei capannelli di persone ridanciane «che tanto il Covid se n’è andato», oppure dai luoghi patinati della movida. Irrinunciabile, pure dopo (dopo?) un’epidemia. C’è chi, queste immagini, fatica a guardarle. «Troppo facile, per qualcuno, dimenticare». Per Elena Alberti, 43 anni, di Pedrengo, è impossibile. Elena da otto anni lavora come infermiera al Pronto soccorso dell’ospedale Bolognini di Seriate. E vedere l’allerta che cala, in tutta Italia, la fa piombare in un senso di sconforto assoluto.
«La gente non si è resa conto che la guerra contro il Covid non l’abbiamo vinta: non l’abbiamo vinta semplicemente perchè non è ancora finita. E difatti i casi iniziano a rispuntare. Se allentiamo le misure è un attimo che ripiombiamo nel buio». Buio in cui l’infermiera ha imparato a lavorare senza sosta, durante turni infiniti nel pronto soccorso. Lo stesso pronto soccorso in cui, nel pieno dello tsunami, è stato ricoverato anche suo padre, 71 anni: «Era metà marzo, ed è arrivato quando l’infezione da coronavirus ormai era già parecchio severa. Hanno provato a mettergli anche il caschetto cpap, ma ormai era incosciente, capivo che non c’era più nulla da fare. Gli stavo accanto, aveva me, ed è una fortuna, sì una fortuna che pochissimi in quei giorni hanno avuto. Ma l’ospedale era pieno zeppo di pazienti che entravano e avevano bisogno di ossigeno: dopo due giorni ho chiesto ai medici di dare la cpap di mio padre agli altri ricoverati. Per lui non c’era più speranza. Se n’è andato a metà marzo».
Un dramma familiare che avrebbe messo in ginocchio chiunque, ma non gli operatori sanitari come Elena. Di loro c’era bisogno come l’aria. Lei e i suoi colleghi hanno continuato a lavorare rinvigoriti da un’adrenalina mai provata: «Arrivando all’ospedale, un giorno mi si è parata davanti agli occhi una scena agghiacciante: fuori dal pronto soccorso c’era una fila interminabile di ambulanze in attesa. Non le ho contate: ma erano tutte lì, in coda, una dietro l’altra, ferme ad aspettare di poter scaricare valanghe di pazienti. Mi sono fermata per un attimo, ero allibita. Non avevo mai visto nulla di simile. Il tempo di riprendermi e ho iniziato a correre per prendere servizio: la determinazione e la grinta con cui abbiamo lavorato in quei mesi non l’avevamo mai provata».
Di quei giorni l’infermiera ricorda tutto. Impossibile, appunto, dimenticare. «Ma ripensarci è doloroso. La sera, prima di entrare in casa dopo il turno, dovevo fermarmi cinque minuti per riprendermi e stamparmi in faccia un sorriso da regalare ai miei bambini. Loro, la mattina, mi salutavano facendomi promettere che sarei tornata, sana e salva. Mia figlia mi ha perfino dedicato un tema per la scuola. Ma la verità è che di quei giorni non si può dimenticare nulla. Soprattutto, non si possono dimenticare gli occhi dei pazienti. Erano terrorizzati». Una lotta continua, quella di Elena e dei suoi colleghi, che non vuole e non può essere vana. Per gli operatori sanitari vedere qualche concittadino allentare le misure di prevenzione è un pugno nello stomaco. Proprio perchè adesso che si è in vantaggio sul virus – come ha detto solo qualche giorno fa il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli – non si può concedergli di riguadagnare terreno. «È vero, durante l’estate siamo riusciti a respirare. Non ci sono stati molti casi, e questo è bastato perchè qualcuno credesse che l’allarme fosse svanito. Ma non è possibile mollare proprio adesso, dopo tutti gli sforzi che abbiamo fatto. Noi abbiamo trascorso mesi interi a non riuscire a trovare il tempo di fermarci per regalare un sorriso ai pazienti. Solo la sera, prima di smontare dal servizio, dedicavamo gli ultimi cinque minuti alla sala azzurra. Era la sala in cui venivano ricoverate le persone troppo gravi, senza speranza. Erano sole, tutte. Senza nessuno che stesse loro accanto. Se lo ricordasse chi adesso si lamenta per una mascherina: la vera libertà è il diritto di poter vivere».
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