Voto, un’Italia nevrotica alla ricerca di risposte

La campagna elettorale per le amministrative di oggi e domani nelle grandi città non sarà da rimpiangere. Rischia di essere ricordata in negativo per grigiore lessicale, inclinazione macchiettistica di qualche candidato, più la tegola esterna piovuta su Lega e Fratelli d’Italia. Si vota nei capoluoghi che contano e già questo è un dato nazionale da non sottovalutare: proprio l’inciampo alle amministrative costrinse D’Alema a lasciare Palazzo Chigi e Veltroni la guida del Pd. La conta di vincitori e vinti sarà al ballottaggio fra due settimane, nel frattempo bisogna metter mano alla legge di bilancio, predisporre la riforma del fisco e si arriverà così a gennaio, il mese che tutto contempla con il rebus Quirinale.

La domanda è quale sarà l’impatto sul governo, che procede su tre linee: gestione dei processi, tutela dei fragili, rilancio dell’economia. Il punto friabile riguarda la crisi di nervi a destra, la competizione estrema fra Salvini e Meloni, le previsioni sfavorevoli in alcune grandi città per il polo tuttora ritenuto maggioritario del Paese. Il focus insiste su Salvini, l’uomo che ha ballato una sola estate e che invece di far tesoro della lezione impartitagli dai fatti per maturare una riflessione autocritica, sembra essersi infilato in una «decadenza strategica». Candidature al ribasso e non solo, per quanto la parabola di Milano dica molto di un centrodestra diviso in quella che fu la terra promessa del berlusconismo e con un patriarca, oggi, che non incide. Draghi potrebbe aver poco da temere, specie nel caso di un insuccesso leghista. In teoria. Giorgetti, il volto della Lega di governo, ha già accennato al timore di un gennaio di fibrillazioni e anche Conte, pur avviato a normalizzare la brigata grillina, è perplesso sugli spazi temporali.

In cima all’agenda politica ci sarà il rapporto fra il capo leghista e l’esecutivo, fin qui caratterizzato dalla contraddizione fra draghismo ostentato a parole e salvinismo corsaro. Specie ora che si devono affrontare temi come tasse e catasto, che stanno nella cassetta degli attrezzi del fu partito nordista. Due Leghe, s’è detto con maggiore insistenza dopo lo scarto di Giorgetti, che proprio perché personalità di mediazione sembra aver oltrepassato la soglia di una normale dialettica come succede in tutti i partiti. È la prima volta che il Gianni Letta della Lega, amico di Draghi e uno che ha maturato i titoli per camminare con un peso specifico proprio, rompe gli indugi, e in modo così esplicito, che evidentemente parla a nome del partito territoriale, quello dei governatori. Quel che si vede è un confronto aspro su due linee politiche fin qui complementari, ma che potrebbero divaricarsi, il segno di un contenzioso a lungo sotto traccia e che rimanda all’eredità del bossismo. Un percorso accidentato, da calibrare in prospettiva, evitando comunque conclusioni, anche perché una cosa è il voto d’opinione e altra cosa è il consenso delle truppe d’assalto.

Le amministrative chiudono una fase e ne aprono un’altra pure nel centrosinistra, che ha dalla sua gli errori altrui e un maggior radicamento sul territorio, dove resta aperta la competizione-collaborazione fra Letta e Conte: le urne di Roma e Torino diranno qualcosa. Dunque, un’Italia in parte sospesa e nevrotica, spaiata rispetto alla realtà, come dicono osservatori autorevoli, eppure anche un Paese che, in chiusura dei 20 anni furiosi di inizio millennio, reagisce con ragionevole ottimismo sapendo che gli estremismi hanno sempre meno cittadinanza e che le tante crisi si superano individuando una via d’uscita e non capri espiatori. Comunicando fatti e prendendo congedo dagli eccessi: in attesa di conferme.

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