Voto a 16 anni
inutile se non c’è
formazione

Tra le linee prioritarie che il neo-segretario del Pd Enrico Letta ha tracciato figura l’estensione del diritto di voto ai sedicenni (oltre alla modifica della legge sulla cittadinanza). Non è una proposta nuova e nemmeno mancano riferimenti di comparazione che attestano la praticabilità di questa soluzione. L’insidia da evitare anzitutto è la chiusura grossolana del dibattito, tentazione diffusa tra quanti – e non sono pochi – indulgono a un moralismo decadentistico che volentieri contrappone i ragazzi d’oggi a quelli di una volta, a tutto vantaggio dei secondi, naturalmente. Come genitore e come insegnante, questo discredito verso i ragazzi di oggi mi pare infondato e ingeneroso. E tuttavia, al netto di questi pregiudizi, la proposta mi pare sollevi alcune obiezioni di fondo.

Se ne comprendono le possibili buone intenzioni, e cioè la volontà di dare voce politica alle nuove generazioni al cospetto di una transizione demografica, segnata da un invecchiamento della popolazione dei cittadini, che tende a renderle progressivamente minoritarie. E tuttavia la rappresentanza politica deve darsi sempre e comunque come missione strutturale quella di rendere presente chi è assente e di dare voce a chi non ne ha; se questo è vero, non se ne migliora il rendimento semplicemente irrobustendone una «categoria». I bambini, ad esempio, continueranno a non votare: chi se ne occuperà? Li faremo votare? E le generazioni future, quelle cioè dei non (ancora) nati?

Credo che si possa inquadrare il tema a partire da una prospettiva diversa e cioè dall’idea di democrazia fondata sul lavoro che ispira la nostra Costituzione. Secondo questa concezione, la democrazia non si esaurisce nel voto, ma si diffonde nelle forme plurali della partecipazione feriale dei cittadini alle sfere sociale, economica e politica. Anzi, la partecipazione politica, in questa visione, è in qualche modo il completamento di una partecipazione che si sia sperimentata prima ai livelli sociali ed economico. Questo significa che si dovrebbe immaginare l’estensione del suffragio ai sedicenni come coronamento di azioni di promozione della loro partecipazione alla vita sociale ed economica del Paese.

Ma non mi pare che questo avvenga. Scuola e università, per esempio, sono andate, negli anni, in una diversa direzione, segnata dall’attenuazione dello spazio partecipativo degli studenti. Le stesse politiche giovanili si traducono spesso in deludenti forme di promozione della capacità consumeristica dei giovani stessi (pensiamo ai vari bonus o alle tessere sconto), anziché del loro protagonismo. Insomma, l’estensione del suffragio non coronerebbe un più complessivo sforzo partecipativo, ma rischierebbe di ridursi – al di là delle intenzioni dei proponenti – a tentativo di pre-costituzione di un ulteriore bacino di clientela elettorale da blandire.

Come ha poi osservato, giustamente, l’ex presidente della Corte Costituzionale Mirabelli, sarebbe del tutto ragionevole che questo eventuale intervento normativo di estensione del diritto di voto fosse accompagnato dalla modifica della maggiore età, perché tutti assumano coerentemente le conseguenze complessive (ad esempio sul terreno penale) che questo riconoscimento di autonomia e di responsabilità comporterebbe. L’ammissione al voto non può infatti che essere il compimento di una responsabilità complessiva verso la comunità.

Credo che la strada più saggia ed equilibrata non sia l’estensione del voto, che conferma la testarda equazione tra democrazia e momento elettorale, ma la promozione di spazi di effettiva partecipazione sociale alla portata dei giovani. E rafforzare la cura della loro formazione politica di cui poco ci si occupa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA