Violenza umana
Segreti e ragioni

La violenza umana ha le sue ragioni ma anche i suoi segreti. Di fronte a questa inquietante verità – non bisogna dimenticarlo mai: solo l’uomo sa essere bestiale, gli animali non lo sono mai; solo l’uomo è capace di una distruzione che non si trova a nessun altro livello della natura – si rischia costantemente di reagire consolandosi con delle banalità: «il mondo è cambiato; la gente è diventata pazza; non ci sono più i valori di una volta; tale ferocità non si era mai vista prima, eccetera». L’assenza di pensiero che alimenta simili luoghi comuni non fa che confermare il nostro imbarazzo nei confronti di aspetti dell’esperienza umana che tendiamo il più delle volte a censurare.

Tale difficoltà si fa poi ancora più pungente quanto il fenomeno della violenza, come dimostrano alcuni recenti fatti di cronaca, incrocia il mondo giovanile: sia che il giovane sia una vittima sia, soprattutto, quando esso si rivela essere un carnefice, non si riesce proprio a comprendere come sia possibile lo scatenarsi di forze così distruttive. Lo ripeto: non si possono affrontare tematiche simili con le categorie che si utilizzano nei bar quando, dopo aver mangiato e bevuto, si discute delle partite della domenica. Nessuna seria riflessione sull’uomo, sul suo esclusivo modo d’essere, può infatti sottovalutare il fenomeno della violenza e della distruzione che a ben vedere accompagna ogni istante della nostra quotidianità.

A tale riguardo, riprendendo la magnifica interpretazione del potere proposta da Foucault (il potere non è solo quello che si manifesta nelle grandi istituzioni come lo Stato, l’Esercito, la Chiesa, eccetera, ma è soprattutto quello che abita nei minimi gesti della quotidianità, nei nostri rapporti con i famigliari e con i colleghi di lavoro: necessità, dunque, di una «microfisica del potere»), si può, ed anzi si deve osservare che la violenza non è mai solo quella dell’omicidio efferato o del crudele atto di bullismo, ma è anche quella che si diffonde all’interno di parole apparentemente inoffensive e di comportamenti apparentemente marginali. Senza cadere nella trappola sopra descritta, quella, per l’appunto, di banalizzare un fenomeno ampio e articolato, il cui segreto permane come una continua sfida all’intelligenza umana, è possibile tuttavia riconoscere la presenza della violenza, di un modo violento di vivere, pensare e parlare, in molti momenti della nostra quotidianità. Ecco, dunque, alcuni aspetti di questa «microfisica della violenza»

Come si può, ad esempio, affermare, e lo si è affermato, che «la proprietà privata è sacra», oppure che «la difesa è sempre legittima»? Come si può trascurare che su questi temi - la natura della proprietà privata e la misura della propria difesa - si sono affaticate per millenni le menti più illuminate della tradizione occidentale e non solo di quella? Come si può ridurre a slogan argomenti che sfidano la nostra riflessione e che richiedono la massima cautela ed attenzione? Come si può far finta di non sapere che la scienza giuridica non a caso si chiama giuris-prudenza? Come si può affermare che si ascoltano tutti ma che comunque si andrà diritto per la propria strada (che ascolto è quello che decide anticipatamente di non cambiare opinione?)? Come ci si può eccitare con l’idolatria dell’eccellenza senza tener conto che in questo modo si rischia di far apparire come dei falliti tutti coloro che arriveranno al traguardo secondi o terzi o quarti, per non parlare di quelli che non ci arriveranno del tutto? Non è forse violenza riempire la testa di giovani di quindici, diciotto, venti anni, con il mantra «uno su mille ce la fa»? E non parliamo del mondo dello sport, soprattutto quello dei professionisti e degli atleti divinizzati dai media, che è abitato da nevrotici che non perdono occasione per comunicarci che «arrivare secondi non basta», che «bisogna raggiungere il risultato ad ogni costo», che «la sconfitta è un fallimento», che «bisogna sempre superare i propri limiti». A proposito, dispiace ricordarlo, c’è stata in questi giorni un’iniziativa a Roma organizzata dagli atleti paraolimpici intitolata: «I limiti non esistono». Le intenzioni erano chiare e del tutto condivisibili, ma forse, così almeno a me sembra, si poteva ed anzi si doveva scegliere un titolo migliore e soprattutto meno falso e ideologico.

L’effetto più immediato di questo violento modo di sragionare e soprattutto di sparlare è quello di trasformare le virtù in vizi: la determinazione si trasforma in ostinazione, il coraggio in spavalderia, la franchezza nel parlare in sfrontatezza, l’autoconsapevolezza in presunzione, la solidità in arroganza. Eppure noi continuiamo a dire ai nostri figli che bisogna saper ascoltare, che bisogna saper pazientare, che non bisogna essere arroganti, che bisogna aiutare i più deboli, che bisogna accogliere i propri limiti. Mi è capitato più volte di citare il seguente formidabile pensiero di Pasolini; mi permetto di farlo ancora una volta: «Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne sia intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici di successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco».

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