L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 08 Luglio 2019
Vi racconto il significato
di essere un Alpino
È difficile spiegare cosa vuol dire essere Alpino, perché ce l’hai nel sangue e basta. A 18 anni mica sapevi cosa fossero stati gli Alpini. Sì, i discorsi dei nonni, dei padri, ma a quell’età non pensi alla naja. Anzi, la maggior parte sperava di essere esonerato e provava tutte le strade possibili per riuscirci.
Mi ricordo che prima dei due giorni di visita a Brescia per essere reso idoneo o meno al servizio di leva obbligatorio, mio padre, Alpino del Tirano, mi disse: «Se non scrivi “Alpino” nella sezione dedicata al tuo corpo scelto, turna piö a ca’… ».
Quindi, alla domanda del questionario: dove vorresti svolgere il servizio militare, scrissi con orgoglio (e con le sue parole nella testa): negli Alpini. Ma alla fine sono Alpino per pura fortuna. Sì, perché non so alla visita della naja chi decide che tu debba essere Alpino o fante. Non ho niente coi fanti, però dai, con tutto il rispetto, non c’è paragone.
Gli Alpini me li ricordo da piccolo, quando vedevo le cerimonie al mio paese, questi uomini seri, quasi cattivi con il cappello in testa, mi incutevano un terrore da abbassar la testa. Ma mi è rimasto indelebile il loro passo/cadenza fiero, il loro attenti davanti al monumento ai caduti, il loro petto in fuori e pancia in dentro. Che uomini gli Alpini…
Bergamo è sempre stata terra di Alpini. Non per caso, ma perché si sa che noi montanari siamo più portati alla fatica, testa bassa e lavorare. Brontoloni, ma lavoratori. Una mattina del 1995, prima di una marcia sulla Croda del Becco, montagna che sovrasta il lago di Braies, non avevo voglia di marciare e alla fine del lago, prima di prendere la salita vera e propria, dissi al capitano Lucia, comandante della 94ª compagnia del battaglione Trento di Brunico: «Capitano, chiedo il permesso di essere esonerato dalla marcia per problemi fisici». Lui, che poi purtroppo è scomparso molto giovane, mi guardò e mi disse: «Non sei di Bergamo tu?». «Sì», risposi con fierezza. «Ecco, caricati sulle spalle l’MG della tua squadra e aspettami in cima alla Croda». Ecco, questo è l’orgoglio che avevamo nell’essere Alpini bergamaschi.
Ora i tempi sono cambiati e l’Alpino è un professionista. Preparato, in perfetta forma, abbigliamento e armi all’avanguardia. Ma parlando con alcuni graduati del 5° Alpini di Vipiteno, ho capito che hanno sempre più bisogno di uomini con dei valori, orgogliosi di appartenere a qualcosa, di brontoloni ma tenaci, di bergamaschi insomma.
Quando racconto queste cose a mio figlio di 10 anni non so se mi ascolta con rispetto o per sola educazione. Spero solo che un giorno possa indossare il cappello alpino con fierezza e con orgoglio. Non credo riuscirà a «fare la naja», ma spero che un giorno faccia parte del gruppo Alpini del suo paese e che porti avanti gli stessi valori che a noi hanno tramandato e che noi, con fatica, cerchiamo di tramandare e far comprendere.
Valori: parola usata troppo spesso per ipocrisia o comodità. Nel gruppo del mio paesino sotto la Nord della Presolana non la usiamo troppo spesso, forse per timidezza o perché siamo di poche parole. Siamo però di orgogliose origini contadine e alpine, dove la parola data conta, dove aiutare chi ne ha bisogno fa parte del nostro essere. Si può dire tutto quel che si vuole, ma i valori cui noi tanto teniamo si realizzano in quei ragazzi poco più che maggiorenni che si alzano presto nei giorni di riposo per andare a fare qualcosa di utile per il proprio paese, per la propria comunità, per sentirsi a posto con la coscienza. Valori che i nostri «veci» ci hanno voluto insegnare: saranno fieri, speriamo, di esserci riusciti.
Sappiamo che siamo fuorilegge per regole statutarie e che gli «amici degli Alpini» non potrebbero indossare il cappello alpino, ma sfido chiunque a vietarglielo. Dobbiamo stare al passo con i tempi e non è colpa nostra se non possono più fare il servizio di leva. Capisco chi si sente geloso nel vedere che ragazzini sbarbati mettono il cappello, ma non credo manchino di rispetto a qualcuno. I loro nonni o padri sarebbero orgogliosi nel vedere che il loro cappello spinge questi giovani a far qualcosa di utile e a mostrare fierezza nell’appartenere a questa Associazione.
Vedo alle adunate tanti che comprano i cappelli alle bancarelle solo per divertirsi e fare casino, o che si fingono alpini solo per comodità personale. Questi sì andrebbero banditi. Cent’anni per un’associazione sono tanti. Non dobbiamo fare i Peter Pan ed essere ragazzini per sempre, ma sottovoce lasciare il posto ai più giovani. Dando magari loro un bel calcio nel sedere quando escono dal sentiero già tracciato. La traccia è quella giusta, teniamola solo in ordine e percorribile per coloro che decideranno di transitarvi. E come mi piace sempre dire, «te ghe mia de proàga, te ghe de riàga».
*Capogruppo Alpini di Colere
© RIPRODUZIONE RISERVATA