L'Editoriale
Giovedì 14 Novembre 2019
Venezia fragile
Difendiamola
Le immagini di Venezia riemersa sconvolta dalla terribile notte tra martedì e mercoledì sono immagini che ci feriscono e ci lasciano ammutoliti. Venezia infatti è una città che ci appartiene, che sentiamo come un tesoro nostro. Un qualcosa di straordinariamente prezioso, per il mondo e anche per ciascuno di noi. Venezia incarna l’idea di una bellezza che non avrebbe dovuto e potuto esistere; perché costruire una città in quelle condizioni è qualcosa che dice delle capacità dell’uomo di rendere reale l’inimmaginabile. Ma Venezia ha un’altra caratteristica unica e irripetibile: pur nascendo come espressione di un atto di intelligenza e anche di potenza dei tanti che nei secoli l’hanno fatta essere quella che è, resta un qualcosa di ultimamente fragile. Se amiamo Venezia di un amore speciale e diverso è proprio perché sappiamo che la sua bellezza ha a che fare con questa sua intima fragilità. È la fragilità delle sue architetture immaginate come texture gentili; è quella delle sue cupole e dei suo campanili che disegnano uno dei più begli skyline del mondo. È una città quasi fuggitiva, che guardiamo come a qualcosa che non sarà per sempre.
Con la fragilità Venezia deve convivere da sempre. E lo ha fatto con grande intelligenza, salvaguardando la propria esistenza anche in momenti molto difficili. Negli ultimi 50 anni questa sapienza intrinseca che guidava le scelte sembra però essere drammaticamente venuta meno. Lo si era sperimentato in occasione di quella che resta l’«Acqua Granda» per antonomasia, quella del 4 novembre 1966. Allora si era capito che le cause erano connesse anche con la costruzione di Porto Marghera: per realizzare la zona industriale si era bonificata parte della Laguna, eliminando le «barene», isolotti che sporgendo appena dall’acqua limitano l’impatto delle maree sul livello dell’acqua funzionando da vaso di espansione e moderando l’azione del moto ondoso. In quegli anni si scavava anche il cosiddetto «Canale dei Petroli» che dalla porta di Malamocco permetteva a navi di grandi stazza di raggiungere la raffineria. Una decisione che ha ingrandito considerevolmente la sezione della bocca di porto aumentando di conseguenza la quantità di acqua che entra in laguna. A detta del Consorzio Venezia Nuova, a cui fa capo la costruzione del Mose, quel canale è all’origine dei tanti problemi che Venezia oggi sta vivendo.
Problemi che si è pensato di arginare con la costruzione di una delle opere più discusse di questi decenni: il Mose appunto. È un progetto che ha decenni di storia e il cui cantiere iniziò nel 2003. A fine ottobre avrebbe dovuto tenersi la prova per le nuove gigantesche paratie proprio alla bocca di Malamocco, ma qualcosa non ha funzionato e il tentativo è stato rinviato. Così tutti si chiedono che ne sia di questa opera monumentale costata già 7 miliardi di euro e che è passata alle cronache più che altro per gli scandali che ha alimentato. Il caso del Mose però solleva una questione di fondo: che Venezia più che di prove di forza per fermare il mare, ha bisogno di un contesto armonico che ne rispetti l’identità fragile. Rispettare la sua fragilità vuol dire sottrarla ai meccanismi voraci del turismo globalizzato, che pretende di affacciarsi su uno dei luoghi più belli del mondo, il Bacino di San Marco, stando al balcone di una delle tante, colossali navi da crociera che quotidianamente solcano la Giudecca. Significa avere il coraggio di far pagare l’ingresso in città, non per selezionare il pubblico ma per far capire a tutti che mettere piede a Venezia è un’esperienza unica e preziosa. Del resto vale ancora quello che aveva scritto Maupassant: «Venezia! Esiste un nome nelle lingue umane che abbia fatto sognare più di questo?». Ora ci vuole coraggio per evitare che questo sogno non ci svanisca tra le mani...
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