Usa, Sanders
scombussola
le carte

«Noi, qui, abbiamo già il socialismo. O meglio: abbiamo il socialismo per i ricchi e il più aspro individualismo per i poveri». Dopo una vita passata in politica Bernie Sanders sa usare le frasi a effetto, magari «rubandole», come in questo caso, a predecessori illustri come Martin Luther King. Forse anche per questo è in testa alla corsa per diventare, per conto del Partito Democratico, lo sfidante ufficiale di Donald Trump. Gli ultimi sondaggi gli regalano un imprevisto ma solido distacco su Joe Biden (ex vice di Obama) e Michael Bloomberg (miliardario ed ex sindaco di New York), anche se i giochi sono tutt’altro che fatti.

Domani Biden quasi sicuramente vincerà in Carolina del Sud e rilancerà la sfida, forte dell’appoggio del partito. E pochi giorni dopo arriverà il Supermartedì, il 3 marzo, giorno in cui gli elettori di fede democratica sceglieranno il loro preferito in 15 Stati, compresi il Texas e la California che da sola assegna 416 delegati, poco meno del 25% di quelli (1.885) che occorrono per ottenere la nomination. Bloomberg scenderà in campo solo in quel Supermartedì, nella speranza di dare un colpo secco agli avversari. Una scelta che, in passato, non ha portato fortuna a chi l’aveva fatta. Il magnate, però, ha dalla sua un’immensa capacità di spesa: nei 15 Stati che voteranno ha riversato 172 milioni di dollari in annunci radio e Tv contro, per fare un esempio, gli 11 di Sanders.

Bisognerà aspettare la prossima settimana, quindi, per capire che senso prenderà la sfida democratica. È chiaro (ed è persino rispuntata Hillary Clinton a ribadirlo) che il Partito considera un’eventuale candidatura del radical Sanders un grosso regalo a Donald Trump e che punta sul centrista Biden. Pronto però ad abbracciare Bloomberg se il Supermartedì dovesse premiarlo in larga misura. Il ragionamento è lineare ma ha due falle. La prima è questa: si tenne analoga linea di condotta nel 2016, al punto da penalizzare la campagna elettorale di Sanders che allora rivaleggiava con la Clinton. Ma la Clinton fu poi sconfitta da un Trump che faceva l’operazione opposta, ovvero radicalizzava a destra le posizioni del Partito Repubblicano. Quindi non è detto che al centro si vinca sempre. Secondo problema: Sanders ha un seguito compatto e fedele che, in caso di delusione, potrebbe disertare le urne, togliendo voti ai democratici. Ma, appunto, si vedrà da martedì in poi. Per il momento, e per tornare alla citazione iniziale, possiamo goderci lo spettacolo di un’America che, di fronte ai successi iniziali di Sanders, sente la necessità di chiedersi se lui sia un «socialista» e, più in generale, che cosa sia questo socialismo di cui i rivali di Sanders agitano lo spettro. In un recente dibattito sul tema si sono confrontati due illustri economisti: Paul Krugman (Premio Nobel nel 2008) e Richard Wolff, docente universitario e autore di innumerevoli saggi. Krugman, con spirito, ha detto: «Non credo che Sanders sia un socialista. Se volere assistenza sanitaria per tutti o spesa pubblica nelle infrastrutture è essere socialisti, bè, allora lo sono anch’io. Temo solo che, se Sanders otterrà la nomination, passerò anni a spiegare che lui è per la Danimarca, non per il Venezuela». Wolff, più serioso, ha invece sostenuto che «Sanders esprime uno stato d’animo che prima era tabù in questo Paese e ora non lo è più. Quello di chi pensa che sia arrivato il momento di riflettere sul nostro sistema capitalistico e sulla possibilità di fare meglio di quanto fatto finora». Al dunque conteranno gli umori degli elettori, i soldi, le alleanze, gli intrighi di partito. E forse Sanders sarà respinto dietro le quinte. Per il momento, però, può vantarsi di aver scombussolato un bel numero di carte.

© RIPRODUZIONE RISERVATA