Usa al voto, perché l’economia peserà

MONDO. «Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni». Questa frase, attribuita al rivoluzionario Lenin, si adatta bene al recente susseguirsi di svolte e imprevisti nella campagna elettorale statunitense, tra attentati sul palco e ritiri dalla scena.

È comprensibile, dunque, che tanta parte dell’attenzione di analisti e spettatori sia attratta dal continuo accavallarsi di novità politiche. Tuttavia, a poco più di cento giorni dal voto per la Casa Bianca, sarà bene non perdere di vista i principali temi attorno ai quali si potrebbe decidere l’esito elettorale, anche al di là dell’affiliazione partitica di milioni di americani.

Iniziamo dall’economia visto che, secondo molte rilevazioni, si tratta dell’argomento che rimane al centro dell’attenzione degli elettori negli Stati Uniti. La preoccupazione numero uno, stando a una ricerca del Pew Research Center, è per la precisione l’inflazione, cioè l’aumento generalizzato dei prezzi che ha attraversato anche la prima economia del pianeta. È in cima alla lista dei pensieri del 62% degli intervistati, e al terzo posto c’è un altro cruccio legato all’andamento dei prezzi come l’accessibilità economica delle cure mediche (57%). Ma si tratta davvero di una preoccupazione legittima? La domanda non è così peregrina se, nel tentativo di tracciare un bilancio della Bidenomics, si osservano i principali indicatori macroeconomici che volgono praticamente tutti al sereno. Il presidente democratico Biden si è insediato - lo ricordiamo - nel gennaio 2021 e quell’anno il Pil, che nel 2020 era scivolato in terreno negativo (- 2,8%) a causa della pandemia e dei lockdown, ha compiuto un balzo in avanti del 5,8%. La crescita è proseguita nel 2022, all’1,9%, e l’anno scorso a un ritmo del 2,5%, ben superiore - per avere un termine di paragone - all’aumento del Pil dell’Eurozona (più 0,4%). L’economia del Paese, anche in questi mesi, continua a essere sostenuta da una robusta dinamica dei consumi privati. Non solo non si è verificata la recessione che in molti avevano previsto in ragione della stretta monetaria della Federal Reserve, ma il tasso di disoccupazione - che nell’aprile 2020 si era avvicinato al 15% - è sceso rapidamente, sotto il 4% già alla fine del 2021.

Eppure l’elettore americano medio, quando si inquieta per l’inflazione, non sta necessariamente prendendo un abbaglio. Innanzitutto perché per diversi osservatori, inclusi alcuni vicini ai Democratici come l’ex Segretario al Tesoro del presidente Clinton e rettore all’Università di Harvard, Larry Summers, la fiammata dei prezzi discenderebbe in buona parte da una scelta sbagliata di politica economica compiuta da Biden. Il riferimento è all’American rescue plan varato nei primi mesi dell’Amministrazione democratica e che, secondo gli stessi osservatori, avrebbe surriscaldato l’economia con sussidi eccessivamente generosi. Inoltre, nonostante sia vero che l’inflazione ha intrapreso una rassicurante traiettoria discendente, l’impatto sugli stipendi è ancora argomento di dibattito. Secondo uno studio effettuato dal Congresso degli Stati Uniti alla fine dello scorso aprile, la crescita dei salari nominali ha accelerato a partire dal 2021 e dall’inizio del 2024 è al di sopra dei livelli pre-pandemici. Tuttavia, dalla primavera del 2021 a quella del 2023, l’inflazione è stata comunque più alta della crescita dei salari nominali, provocando una crescita negativa dei salari reali. Detto in altre parole: per circa due anni, in media, i lavoratori hanno visto ridursi il proprio potere d’acquisto, cioè la quantità di beni e servizi che possono acquistare con una determinata somma di denaro. Il recupero del terreno perso, per molti, è ancora in corso.

Allo stesso tempo, proprio sulle fasce di lavoratori meno abbienti, pesa l’innalzamento dei tassi di interesse messo in campo dalla Fed per frenare l’inflazione; è infatti proprio questo gruppo di americani quello solitamente più indebitato che, di conseguenza, vede salire le rate del proprio mutuo e non solo. Tutti fattori che, uniti alla condizione tutt’altro che ottimale delle finanze pubbliche di Washington, spiegano il livello (insolitamente) modesto del clima di fiducia delle famiglie. Ed è questo, forse, l’indicatore politicamente più sensibile, da tenere d’occhio da qui al prossimo 5 novembre.

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