Ursula bis ma ogni accordo ha un prezzo

MONDO. Dunque in Europa starebbe per tornare la maggioranza Ursula, come viene detta l’alleanza tra i tre partiti «storici» del Parlamento che ha espresso la presidente della Commissione: popolari, liberali e sinistra.

Ma è una maggioranza ammaccata, che ancora deve decidere se andare a destra o a sinistra per rimanere stabile. Una scelta cruciale per le sorti del Vecchio Continente e vedremo perché. La sua leader Ursula von der Leyen, simbolo di un’Europa più unita e resiliente di fronte alle forze anti-europee, sta per essere riconfermata dopo una serie di accordi in sede di Consiglio europeo. La riconferma dovrà passare dalle forche caudine del Parlamento di Strasburgo, all’assemblea plenaria dal 16 al 19 luglio, quando verrà inaugurata ufficialmente la nuova legislatura e dove la maggioranza ha 37 voti di margine e i franchi tiratori (l’elezione è a scrutinio segreto) in agguato sono parecchi.

Dunque alla maggioranza Ursula, di fronte ai venti del sovranismo e del nazionalismo europeo, serve un nuovo alleato. In questi giorni le trattative sono frenetiche, al gran bazar della politica europea, dove sono in ballo, oltre alla presidenza, le nomine dei commissari (l’unico certo è quello agli Esteri, la liberale estone Kaja Kallis) e delle presidenze degli organi legislativi ed esecutivi. Cene informali si sono susseguite e hanno dato luogo alla fumata bianca sulla von der Leyen presidente.

Il pacchetto è stato discusso dal cancelliere tedesco Scholz e il primo ministro spagnolo Sanchez per i Socialisti, dai loro omologhi polacchi e greci Tusk e Mitsotakis per i Popolari, dal presidente francese Macron e il premier olandese Rutte per i Liberali. Le due sedi (Consiglio e Parlamento) rendono i leader spesso ambigui politicamente, poiché non si sa se parlano a livello istituzionale o politico o come leader delle famiglie politiche in gioco. Macron ad esempio in Consiglio ha un forte potere come presidente francese ma sul piano politico in Parlamento rischia di essere quasi annullato dalla Le Pen.

A tutto questo dobbiamo aggiungere un altro fattore. Come è noto il Ppe, il partito di centro-destra di Manfred Weber che unisce valori democratici, liberali e cristiani, di gran lunga vincitore delle ultime elezioni, sta facendo la voce grossa. Voleva anche la presidenza del Consiglio, anche se gli accordi hanno portato al portoghese della sinistra (cui spetta Palazzo Europa) Antonio Costa, forse solo per metà mandato da alternare con il nostro Enrico Letta e questo rende incandescenti gli accordi. Ma soprattutto, a causa di una maggioranza risicata (per non parlare dei «nemici» interni), la formazioen di Weber, von der Leyen e Tajani, che ha focalizzato la sua campagna elettorale sui temi economici, deve decidere con chi allearsi: a sinistra ci sono i Verdi, a destra c’è l’ECR, in pratica il partito di Giorgia Meloni.

Al momento i popolari sono in mezzo al guado. Allearsi coi verdi significa rafforzare le politiche «green» e di riconversione industriale. Fare un patto con la nostra premier equivale invece a sposare le politiche migratorie (ma forse sarebbe meglio chiamarle anti-migratorie) supportate dalla destra.

Nel frattempo ci saranno le elezioni francesi, con il braccio di ferro tra la maggioranza di governo e il Rassemblement national, che alla Meloni non spiacerebbe, perché sposterebbe l’ago della bilancia europeo più a destra. Insomma, le incognite permangono. Gli alleati del Ppe, che finora ha avuto un approccio più moderato sull’immigrazione, promuovendo l’integrazione e il rispetto dei diritti umani, pur mantenendo una posizione ferma sulla necessità di una gestione efficace dei confini, hanno pochi argomenti per alzare la testa. Ma si capisce anche da queste farraginose trattative come l’Unione rischi di rimanere distante dai cittadini comuni.

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