L'Editoriale / Bergamo Città
Venerdì 03 Maggio 2019
Unità sindacale
Da dove Ripartire
Sono da sempre affascinato dell’idea dell’unità sindacale che resta nelle aspirazioni fondamentali del sindacalismo confederale: mi spiace dirlo ma ho trovato l’intervista al segretario della Cgil Landini apparsa su «la Repubblica» il 1° Maggio alquanto debole rispetto al tema posto e all’enfasi con cui si è presentata. Questa considerazione nulla toglie alla positività di avere posto una problematica di vitale importanza per il sindacalismo e spero che contribuisca ad aprire un dibattito approfondito, capace di affrontare con rigore e con una certa asprezza il tema del ruolo e della funzione attuale delle organizzazioni sindacali in una società in profondo cambiamento.
La rivoluzione digitale che già vediamo all’opera si presenta come il segno della nuova «grande trasformazione» e non a caso prendo in prestito il titolo di un libro con cui l’economista Polany affrontava in chiave antropologica e sociale la prima rivoluzione industriale e di come aveva modificato in profondità il modello produttivo, sociale e culturale. Ed è quello che, seppur in forme e modalità diverse , vediamo verificarsi anche oggi. Inoltre, l’evoluzione tecnologica che oggi rappresenta l’elemento centrale e dominante dell’attuale «grande trasformazione», sta progressivamente e radicalmente generando nuove forme di organizzazione del lavoro e nello stesso tempo trasforma quelle che abbiamo ereditato dalla società industriale.
Ci troviamo all’interno di una metamorfosi che sta cambiando attraverso le nuove tecnologie non solo il lavoro, ma anche i rapporti umani e sociali, le forme dell’autonomia e della dipendenza, del dominio e della libertà , e lo stesso concetto di proprietà. Il sindacato si trova ad essere collocato in una congiuntura inedita che gli pone domande ineludibili sul come si configurerà nel prossimo futuro: democratico, elitario, leaderistico , corporativo, antagonistico, riformista, riformatore. Questa non è una questione puramente terminologica ma di sostanza, perché mette in luce che non può più fare affidamento sui diversi paradigmi socio-culturali che lo hanno orientato durante tutto il periodo industriale.
Il tema centrale che oggi si pone in modo nuovo è quello di una radicalizzazione del concetto di autonomia che va ripensata, capacità di espressione di una politicità culturale, valoriale, etica e sociale e non solo come distanza e separazione dalle forze politiche. Bisogna avere coscienza che quando si pone il tema dell’unità sindacale sorgono molti interrogativi , si evidenziano contraddizioni e giudizi critici sul recente passato. Si tratta di avere il coraggio di usare il bisturi e penetrare nella carne viva delle organizzazioni e destrutturare molti miti e convinzioni. Il metodo utilizzato di proporre un tema di questa natura attraverso un’intervista non è adeguato alla problematica sollevata anche se ha il merito di aprire un dibattito, che per essere fecondo non può chiudersi nel confronto tra gli attuali gruppi dirigenti ma ripartire dalle persone al lavoro ed investire l’insieme del sistema politico, sociale e culturale italiano che da anni mostra una disattenzione verso i corpi sociali. La democrazia non vive solo di corpi politici ma ha un estremo bisogno delle rappresentanze sociali.
Il sindacato deve recuperare la sua capacità di influenza culturale, sociale e politica: per fare questo non basta dire come fa Landini che c’è bisogno di un «umanesimo sociale» che non essendo precisato più uno slogan ad effetto che non una proposta reale. Si tratta in primo luogo di superare gli stereotipi tradizionali che impediscono di avanzare e rischiare l’attraversamento dei nuovi territori sociali che a differenza del passato non sono segnati dalle divisioni di classe ma dal crescere di sacche profonde di disuguaglianza che non lasciano spazio a forme di emancipazione ma che fanno precipitare molte persone nell’area dell’esclusione.
È mia convinzione che in questo decennale segnato dalla crisi economica e finanziaria che progressivamente si è trasformata in crisi morale, il sindacato abbia perso l’occasione di inserirsi negli spazi e negli interstizi che la crisi dei partiti aveva lasciato scoperto. Seguendo non senza turbamenti l’attuale dibattito politico mi viene, a volte, da pensare,che un certo linguaggio sindacale antagonista e protestatario o eccessivamente acquiescente, abbia indirettamente contribuito al germinare del populismo. Il sindacalismo comunque, con la sola presenza, ha funzionato da contenitore rispetto alla crudezza delle proposte neo liberali che hanno sacralizzato il mercato e disumanizzato l’economia, ma per potere fare passi avanti bisogna che si apra a una profonda riflessione sul perché e su quali sono state le ragioni che gli hanno impedito di cogliere e a rappresentare il malessere sociale, l’insoddisfazione, la sfiducia e l’incertezza che hanno segnato la vita degli strati popolari.
L’agire sindacale ha una profonda vocazione riformatrice che deve essere rilanciata con decisione, non deve temere le nuove tecnologie, ma coglierne la positività che contengono: per fare questo deve puntare con decisione su proposte e un modello contrattuale orientato alla partecipazione , alla comproprietà , a forme di autogestione e sostenere l’estensione del non-profit , della mutualità e tutte le forme di economia collaborativa e cooperativa.
Deve rompere con le propensioni oligarchiche che si sono instaurate nella sua vita interna per ampliare le forme di una democrazia decidente e deliberativa dal basso che sia in grado di far partecipare alle scelte le persone al lavoro.
Davanti a sé ci sono due questioni che rappresentano la faccia della stessa medaglia: il lavoro e la questione ambientale. Trattare la questione ambientale senza affrontare le questioni sociali è sbattere la testa contro un muro. Da qui la necessità che il sindacato si faccia promotore di un patto sociale ed ecologico. Su questo terreno concreto che l’unità sindacale può divenire un elemento di necessità e di ampio coinvolgimento delle lavoratrici, dei lavoratori e delle giovani generazioni. Pur vedendone i limiti considero l’idea di Landini un’utile provocazione da non lasciare cadere.
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