Ungheria ribelle
all’Ue, ma divisa

Il problema sta a monte ed è datato 1° maggio 2004. Allora l’Unione europea abbracciò i Paesi della zona centrale del continente, molti dei quali ex satelliti del Cremlino. Si privilegiò l’aspetto geopolitico su quello della vera condivisione dei valori fondanti. Troppo grande era il debito verso di loro per averli abbandonati, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra le grinfie di Stalin. Non si poteva aspettare. Allo stesso tempo il rapporto russo-occidentale viveva in quegli anni un periodo di tranquillità. Bisognava sfruttare il momento favorevole. I nodi sono così arrivati al pettine in un momento successivo.

Ungheria e Polonia hanno perfino creato un asse nazionalista, sovranista, ultraconservatore per bloccare a livello comunitario questioni che a loro stavano a cuore. Ma, si intenda, fa parte dei giochi. Il ragionamento che veniva fatto sul Danubio come sulla Vistola era semplice: siamo usciti dopo 40 anni di oppressione sovietica da una camicia di forza, perché adesso - che abbiamo recuperato la nostra sovranità - la dobbiamo cedere ad un’altra Unione. È come se Urss, Comecon e Patto di Varsavia fossero la stessa cosa dell’Unione europea e della Nato.

I complessi anni ’90 ed il post adesione con i partiti filo-europeisti locali, che, quando al potere, hanno spesso portato avanti politiche eccessivamente liberiste, hanno facilitato l’ascesa di leader come Orban e Kaczynski. Questi hanno trovato terreno fertile nelle campagne e nelle province, escluse dal primo boom economico post adesione. È qui che Orban e Kaczynski hanno le loro fortezze elettorali. Colpisce, al contrario, come i sindaci di Budapest, Varsavia e Praga (guidate da giunte centriste e riformiste) abbiano insieme di recente firmato manifesti filo-europeisti, denunciando le politiche nazionali.

Adesso fa clamore che l’ungherese Orban non voglia ritirare la legge discriminatoria contro le minoranze sessuali e si sia scontrato con Bruxelles. Ma in precedenza Kaczynski, sempre attraverso il premier di turno in sua rappresentanza, ha fatto collezionare alla Polonia procedure di infrazione in serie. Si pensi soltanto alle sue riforme liberticide dei mass media, del sistema giudiziario, della Costituzione, dei diritti delle donne. Sulla Vistola si è vissuta una vera Caporetto tanto che l’allora presidente del Consiglio europeo, il liberale polacco Donald Tusk, è stato messo in seria discussione dai propri connazionali ultraconservatori e salvato dai capi di Stato degli altri Paesi membri.

E i soldi in queste questioni contano fino ad un certo punto. L’Ungheria è oggi lo Stato dell’Unione europea che in proporzione al numero di abitanti riceve più fondi da Bruxelles di tutti gli altri - 4,5 miliardi di euro all’anno - contro 924 milioni di versamenti. La Polonia è stata ricostruita dopo l’adesione del 2004 (ed è oggi la quinta potenza economica dell’Unione), ottenendo fondi in media ogni anno pari a circa il 3% del suo Prodotto interno lordo: 81 miliardi nella precedente Finanziaria Ue, adesso 87.

Sfogliare i libri di storia, ad esempio «Requiem per un impero defunto» di Fejto, e porre l’attenzione su come ungheresi e polacchi si comportavano nel Parlamento asburgico aiuta a comprendere quanto avviene oggi. In queste ore Orban ha solo strappato il titolo di «pecora nera» a Kaczynski. Nulla di più, ma il problema viene da lontano. È necessario essere consci che le società ungherese e polacca sono spaccate al loro interno. Rileggere insieme a loro e condividere la Carta dei diritti fondamentali è un appuntamento che non può essere più rimandato.

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