Una scena indegna di uno Stato di diritto

MONDO. «Deportation flights have begun». I voli della deportazione sono iniziati. La foto diffusa dalla Casa Bianca mostra nove poveri cristi incatenati mentre salgono in colonna su un aereo cargo militare.

Non sono terroristi. E nemmeno rapitori, stupratori, serial killer, ladri o magari taccheggiatori di supermercati. Sono immigrati clandestini, ridotti in catene e mostrati al pubblico ludibrio digitale globale per aver commesso quello che per Trump è uno dei peggiori dei reati: giungere illegalmente negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Come hanno fatto in passato milioni di uomini e donne, a cavallo del ’900 o nel dopoguerra passando per Ellis Island: irlandesi, tedeschi, italiani, spagnoli, turchi, russi, macedoni, greci i cui cognomi oggi riempiono l’elenco telefonico di New York e delle altre città americane.

Il pugno di ferro in diretta

I poveracci prescelti fanno parte dei 70-80 migranti diretti in Guatemala, imbarcati alla base militare di Fort Biggs nei pressi di El Paso, in Texas, una delle zone calde del confine col Messico. Il Pentagono ha messo a disposizione due C-130 e due C-17 che, in coordinamento con il Dipartimento di Stato e il dipartimento della Homeland security, sono utilizzati per le espulsioni. La procedura dei rimpatri è sempre questa, ma la Casa Bianca ha voluto mostrare a tutti la durezza del suo pugno di ferro come monito contro «l’invasione» dei clandestini. Una durezza declinata su tutti i fronti con la militarizzazione del confine, dove sono attesi altri 10mila soldati, e vari ordini esecutivi: dallo stop di tutte le richieste d’asilo pendenti al rafforzamento dei poteri della polizia, autorizzata ad entrare anche in chiese e scuole con operazioni «cilene». Finora sono state arrestate oltre 700 persone in raid mirati a Chicago, New York, Boston e anche in New Jersey. La giustizia secondo Trump aveva bisogno di una scena esemplare: i malcapitati vestono tutti un giubbotto e un paio di pantaloni, sneakers, come miliardi di uomini, ma hanno le mani legate da una catena che scende cingendo con un doppio giro i fianchi fino a serrare anche i piedi, come se fossero ai lavori forzati. Tra l’altro il termine «deportation» è infelice, perché rimanda alle deportazioni degli ebrei e allo sterminio dei lager nazisti, proprio alla vigilia della Giornata della Memoria istituita a livello globale con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo novembre 2005. Le catene dei migranti non servono solo a immobilizzare. Servono a umiliare, a inviare un messaggio simbolico: chi sfida la legge americana perderà tutto, persino la dignità.

Tra l’altro il termine «deportation» è infelice, perché rimanda alle deportazioni degli ebrei e allo sterminio dei lager nazisti, proprio alla vigilia della Giornata della Memoria istituita a livello globale con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo novembre 2005

Non sappiamo bene se è solo un’unica foto esemplare: punirne nove per educarne centomila o forse tre milioni, marketing politico giudiziario di ultima generazione. Ma la scena è indegna di uno Stato di diritto, di un Paese civile, di quella che è sempre stata definita la Patria della libertà. Fa venire in mente altre scene poliziesche analoghe, come si fa ad esempio con i boss colombiani arrestati dalle forze speciali, tipo Joaquin Guzman detto «El Chapo» o Pablo Escobar, o ancora certi criminali di guerra tra cui Milosevic, Karadzic, Noriega, Saddam. Scene esemplari ma incivili per uno Stato di diritto anche se riguardano personaggi colpevoli di migliaia di omicidi o autentici gaglioffi, ma ancora più disgustose se riguardano poveri cristi, i nuovi «miserabili» per dirla con Victor Hugo, che peraltro scrisse pagine memorabili nella sua opera più famosa descrivendo i galeotti in catene che attraversavano le strade di Parigi.

Il simbolo delle catene

Le catene, simbolo eterno di oppressione e controllo, raccontano una storia di umiliazione e privazione. Persone, non numeri, costrette in fila sotto lo sguardo vigile degli agenti: un messaggio visivo che sembra fatto apposta per soddisfare una parte dell’opinione pubblica, quella «trumpiana» che chiede pugno duro e rimpatri immediati. Ma dietro ogni volto ci sono storie che non possono essere ridotte al gesto meccanico di una deportazione: famiglie che fuggono dalla povertà, dalla violenza, da condizioni di vita insostenibili.

Le catene dei migranti non servono solo a immobilizzare. Servono a umiliare, a inviare un messaggio simbolico: chi sfida la legge americana perderà tutto, persino la dignità

Si è fatto un passo indietro sulla strada del diritto umanitario internazionale. I social network e gli altri media hanno acuito la pena in un’enorme, gigantesca, globale berlina mediatica degna della più odiosa caccia alle streghe. Una scena che degrada l’immagine degli Stati Uniti come terra della libertà e rifugio degli oppressi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA