L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 08 Settembre 2021
Una linea di difesa
per gli «scartati»
Con l’analogia, forte ma inelegante (e un po’ offensiva), del «metadone di Stato» Giorgia Meloni rilancia la critica al reddito di cittadinanza (RdC). Forse anche per l’uditorio (Forum Ambrosetti a Cernobbio), Meloni contesta che il RdC non sia una misura di sviluppo e che mantenga i poveri senza reinserirli professionalmente. In questo modo, un po’ paradossalmente, usa un argomento che normalmente viene da sinistra. Nell’ampia letteratura in tema, alcuni economisti cari al centro-destra (M. Friedman, A. Martino e F. von Hayek) sono giunti a prefigurare l’introduzione di forme di reddito garantito proprio come strumento utile a svincolare l’autonomia del mercato da preoccupazioni di natura redistributiva ed etico-politica.
In presenza di un reddito garantito, il mercato potrebbe infatti essere riconsegnato alle sue regole puramente economiche, liberato da ogni intervento politico finalizzato alla creazione di piena occupazione o alla tutela dei lavoratori. Per von Hayek, «non vi è motivo per cui in una società libera lo stato non debba assicurare a tutti la protezione contro la miseria sotto forma di un reddito minimo garantito, o di un livello sotto il quale nessuno scende. È nell’interesse di tutti partecipare a quest’assicurazione contro l’estrema sventura, o può essere un dovere morale di tutti assistere, all’interno di una comunità organizzata, chi non può provvedere a se stesso.
Se tale reddito minimo è fornito fuori dal mercato a tutti coloro che, per qualsiasi ragione, non sono in grado di guadagnare sul mercato un reddito adeguato, ciò non porta ad una restrizione della libertà». Per chi sposi questa prospettiva, il RdC dovrebbe liberarsi da obiettivi di interferenza con il mercato: assistere senza interferire con il mercato. Proprio il contrario di quanto asserito dalla Meloni. Ma la prospettiva della Costituzione, all’interno della quale il RdC va collocato, è molto diversa. La Costituzione, in coerenza con il fondamento lavoristico, assicura il mantenimento solo agli inabili (art. 38), per i quali però persegue «educazione» e «avviamento professionale», e impegna la Repubblica a una trasformazione sociale ed economica che miri alla partecipazione dei cittadini-lavoratori (art. 3, comma 2). Il RdC è dunque un istituto costituzionalmente necessario proprio perché sostiene la povertà e, insieme, mira al reinserimento sociale e (non solo) occupazionale.
Esso dovrebbe quindi essere parte di un più complessivo e ampio impegno della Repubblica (e della sua proiezione europea) alla trasformazione sociale ed economica e, in quest’ottica, al governo dell’economia. La povertà è multidimensionale e non sempre può essere realisticamente coniugata con l’occupabilità. E, d’altro canto, i progressi dell’automazione sembrano prefigurare ulteriori massicce espulsioni dal mercato del lavoro, sicché il RdC rischia di diventare davvero la linea di difesa disperata per gli «scartati». Come si possa con tale leggerezza cancellare questo strumento – raccomandato dalla stessa Ue sin dal 1992 - non si comprende e, costituzionalmente parlando, non si può accettare. Il VI Rapporto Caritas sulla povertà avrebbe molto da insegnare alla classe politica se questa volesse davvero allineare ancora meglio lo strumento ai bisogni e alle povertà che sono esplosi nel periodo pandemico. Troppi poveri sono ancora esclusi dal beneficio. Alcuni accedono abusivamente? Se questo è il problema, si combatta allora l’evasione, che si scarica su tutte le prestazioni dello Stato sociale (accesso ai nidi, esenzione dai tickets, ecc…), anziché seguitare in uno storytelling selettivo volto a screditare uno strumento di civiltà.
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