Una fuga inattesa
Ora siamo più poveri

Da ieri sera Bergamo è un po’ più triste e un po’ più povera. Felice Gimondi non era soltanto uno tra i campioni di ciclismo più amati di tutti i tempi in ogni angolo del mondo, ma era l’essenza - migliore - di noi bergamaschi e della nostra bergamaschità. Era il simbolo della nostra terra, non per la sfilza dei trofei vinti sulla mitica «Bianchi», dal campionato del mondo in giù, ma per come li aveva vinti: senza scorciatoie, morendo di fatica sui pedali, umile (a volte anche fin troppo), rispettoso di tutti, e caparbio, capace di spingere fino all’ultimo millimetro di asfalto che lo separava dal traguardo. «Mola mia» urlava dentro di sé Felice, e lo sa bene il suo storico rivale, Eddy Merckx, spesso davanti a lui, ma non prima di aver speso anche l’ultima briciola di energia che aveva in corpo.

Nel 1971, sulle strade di Mendrisio, in Svizzera, Gimondi vide sfumare il sogno mondiale negli ultimissimi metri, bruciato sul filo di lana proprio da Merckx. Il terzo, il francesce Cyrille Guimard, arrivò ben oltre un minuto dopo... Al traguardo, il campione di Sedrina continuava a toccarsi la faccia con un’espressione dolorante: non era solo la sconfitta a dolergli, ma la mandibola, andata fuori posto per come e per quanto aveva stretto i denti per restare incollato all’amico-nemico di sempre. «Era più forte di me - racconterà poi Felice - ma per tagliare il traguardo davanti a me, ogni volta, doveva morire...». E il commento più bello alla notizia della morte di Gimondi arriva proprio dal grande campione belga: «Questa volta - ha detto - perdo io». La sua terra amava Gimondi così come Gimondi amava la sua terra, un’equazione matematica potremmo dire, perché proprio lui sapeva incarnarla meglio di molti altri. Era un uomo «buono» Felice, sensibile alle difficoltà altrui, pronto a dare una mano ogni qual volta ce ne fosse bisogno, senza fare troppo chiasso, senza mettere manifesti sui muri. Su quelli, e sulle strade di cemento, scrivevano i suoi tifosi la notte prima dei suoi «passaggi» in bici, in Italia, in Europa, nel mondo. Tra i tanti «slogan», vergati a caratteri cubitali con una pennellessa, ne rimane certamente uno nella memoria di tutti. «Felice, la tua droga è la polenta». Bergamaschità allo stato puro.

Ma la forza di Gimondi era la credibilità, anche dopo aver smesso i panni del campione. Racconta chi c’era che anche solo una manciata di anni fa, parlando ai ragazzini di una scuola media che di lui avevano forse sentito parlare dai nonni, nella sala l’attenzione era altissima, nonostante non fosse un divo e nonostante fosse lì per insegnare ai più giovani i valori dell’onestà, della correttezza, della concretezza e della riconoscenza, temi che difficilmente fanno presa tra i giovanissimi. Già, la riconoscenza. Chi lo conosce bene sa quanto peso dava a questo sentimento, soprattutto verso la propria famiglia, a cominciare dalla moglie Tiziana, la compagna di una vita, lontano dalle luci della ribalta, ma sempre vicina al grande campione. «Verrei volentieri - diceva a chi lo invitava a questa o a quella manifestazione -, ma stasera voglio stare con Tiziana. Sono stato in giro così tanto e ora è giusto che la risarcisca in qualche modo...». Ma c’è anche la riconoscenza verso i suoi tifosi, anche se a volte non sapeva esprimerla fino in fondo, procurandogli - anni dopo - qualche rimorso, e persino qualche lacrima. «Quando vincevo sulle strade del Nord Europa - raccontava - al traguardo venivo circondato da tantissimi tifosi Italiani, che venivano fin lassù, magari dalla Sicilia, e che volevano salutarmi, toccarmi, parlarmi.... ma io ero sfinito e qualche volta li trattavo male. Ma se tornassi indietro cercherei di accoglierli tutti in un grande abbraccio...». Un’altra lezione di bergamaschità: l’accoglienza, di cui noi siamo davvero maestri. Nonostante tutto.

Qualche anno fa, al termine di una serata pubblica, un’anziana signora lo avvicina sul palco: «Lei non si ricorda di me...» dice a Gimondi, che, suo malgrado, non può che confermare. «Quando lei correva in Belgio - racconta la donna - io e mio marito venivamo sempre a salutarla al traguardo.... Lui ora non c’è più, ma a me faceva piacere venire a salutarla anche questa sera, e avrebbe fatto piacere anche a lui». Felice l’abbracciò a lungo e - racconta chi c’era - versò più di una lacrima. «L’orologio prende il tempo e il tempo batte per noi» ha scritto Enrico Ruggeri nella canzone dedicata a Gimondi. Che finisce così: «Non c’è più chi perde o vince quando il tempo non vuole. Quando la strada sale, non ti voltare. Sai che ci sarò». Ora per Felice il tempo non batte più. Ma le sue imprese ci hanno reso felici. Grazie, con tutto il cuore: il grande cuore dei bergamaschi.

RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA