Un «parere»
che lascia
intatto
il problema

Non c’è da stupirsi e nemmeno da scandalizzarsi. A questa decisione si doveva arrivare, prima a poi. La tempesta perfetta scatenata dall’Associazione «Luca Coscioni» in estate e l’ampio uso di artiglieria pesante sul piano mediatico, istituzionale e legislativo dei radicali sulla questione dell’eutanasia non poteva che sortire l’effetto desiderato. Abbiamo la prima autorizzazione da parte di un’azienda sanitaria al suicidio assistito. Non serve più andare in Svizzera, si può morire qui sulla base di una sentenza della Corte Costituzionale, «Sentenza Cappato», secondo cui il suicidio assistito non è punibile a determinate condizioni, che devono essere verificate dal Servizio sanitario nazionale.

Per mesi si è contato un diniego dell’Asl, sentenze contraddittorie del Tribunale, fino al via libera del Comitato etico territorialmente competente. Manca tuttavia un protocollo, una sorta di linea-guida per procedere concretamente al suicidio assistito e si ha ragione di credere che qui si aprirà l’ulteriore battaglia. Il Comitato etico ha precisato che «restano da individuare ora le modalità di attuazione», cioè il tipo di farmaco da usare, chi deve aiutare, come e quando. Un conto infatti è certificare l’esistenza di un diritto, un altro è stabilire la concreta esercitabilità di quel diritto, cioè il modo per renderlo effettivo. E non si tratta di un affare da poco, né etico, né giuridico. Il diritto che è stato riconosciuto è quello di porre fine a sofferenze.

Ma in realtà la sentenza della Corte non interveniva sul diritto di chi sceglie di morire, ma sui diritti di chi sceglie di aiutare una persona a morire. In Italia non c’è una legge, anche se più volte è stata sollecitata per regolamentare il suicidio assistito, ma solo una sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato, la quale elencava le condizioni per la non punibilità nell’agevolazione del suicidio cosiddetto del consenziente, ma nulla diceva circa le operazioni da mettere in atto per raggiungere l’obiettivo. Da qui il solito pasticcio di corsi e ricorsi e di interventi politici. In estate «Mario», così è stato chiamato dai giornali, aveva scritto una lettera aperta al ministro della Salute Roberto Speranza denunciando l’opposizione della Asl delle Marche. Il ministro aveva risposto subito assicurando il suo impegno perché con un’intesa tra Governo e Regioni si arrivasse a fornire «indicazioni chiare e univoche» circa l’applicazione della sentenza della Corte in tutti i territori.

Questo è il nodo: il ministro ha promesso una cosa che nessun ministro o Conferenza delle Regioni può fare se non scontrandosi con la libertà dei singoli Comitati etici. Nel testo Speranza sottolineava tuttavia anche la necessità di una legge. Ma intanto l’artiglieria pesante della campagna di firme per il referendum che potrebbe autorizzare l’eutanasia attiva sparava con tutto ciò che aveva a disposizione portando l’attenzione alle stelle.

Siamo sicuri che il Comitato etico non abbia deciso sotto pressione? Una legge comunque è indispensabile per dare concreta applicazione ai principi espressi dalla Corte, perché i sanitari e gli altri operatori pubblici della sanità coinvolti, compresi i membri dei Comitati etici, devono sapere nel dettaglio cosa possono fare e come sarà valutata la loro condotta, garanzia per evitare di incorrere in un reato, l’omicidio volontario, almeno finché non si cambiano le regole per legge o per referendum. Senza una legge - e con solo una sorta di accordo tra le parti per la scelta del miglior veleno e della pratica più efficace - viene certificata «l’indifferenza» dell’ordinamento, «indifferenza» mai consentita quando si tratta di dare concreta attuazione ad un diritto riconosciuto, qualsiasi diritto, non soltanto quelli personali, ma anche - per esempio - quelli patrimoniali.

Non è quindi il caso di alzarsi e applaudire. Qui si rischia - sul piano etico e morale - l’indisponibilità della vita, ma anche (e soprattutto) ci si infila in una china pericolosissima e assai scivolosa sul piano della giurisprudenza. La fine dell’indisponibilità della vita nel nostro ordinamento ha bisogno ben altro di un parere di un Comitato etico. Al punto in cui siamo il Parlamento non può più far orecchie da mercante e promesse da marinaio.

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