Un governo malato
tra rinvii e crisi

Approvare la legge di bilancio è stato per la maggioranza come doppiare il Capo di Buona Speranza. Da qui la navigazione sarebbe proceduta in tutta scioltezza. Conte, Di Maio e Zingaretti si erano quindi ripromessi di fare il tagliando alla coalizione per fissare il cronoprogramma del governo: stabilire tempi certi per le riforme promesse. Un neologismo è sempre una risorsa retorica preziosa. Un nome nuovo conferisce sempre una certa aura
di novità a chi lo pronuncia. Promettere un programma di governo è un rito consunto, molto meglio promettere un «cronoprogramma». Peccato che sia rimasto solo un flatus vocis. I buoni propositi si sono inceppati ancor prima di iniziare a tradursi in azione.

Lo scorso 7 gennaio doveva tenersi il vertice di maggioranza: saltato. Il giorno dopo doveva tenersi un vertice per sciogliere il nodo intricatissimo della prescrizione: slittato. Per il 20 prossimo era convocata la Giunta per le immunità del Senato per affrontare l’autorizzazione a procedere per Salvini, accusato di sequestro di persona per i 131 migranti bloccati in mare un anno fa sulla Gregoretti; tema, carico di implicazioni politiche ed elettorali: rinviato a dopo il voto regionale del 26.

E ancora: la vertenza aperta sulle concessioni autostradali è sempre lì che aspetta di essere risolta, per non dire di Alitalia, una falla giornaliera di un milione di euro. Nel frattempo ha avuto un’impennata drammatica la guerra civile in Libia; il che proietta sul nostro Paese lo spettro non solo di un esodo incontrollato di civili in fuga dalla guerra, ma anche della perdita di posizioni economiche vitali, in primis nel settore Upstream che l’Eni svolge dal 1959. Sono molte, come si vede, le questioni di grande importanza aperte. Non ce n’è una su cui non si registrino orientamenti dissonanti, spesso anzi opposti tra i soci di maggioranza. Difficile in queste condizioni concordare un programma, ancor più un cronoprogramma.

Il grave è che non ci sono solamente indirizzi divergenti, difficili da conciliare. C’è anche una salute cagionevole dei partner di governo, in particolare del M5s, il partito che dovrebbe fungere da architrave di sostegno della maggioranza. Tra espulsioni, defezioni, fronde varie e la richiesta di ricambio al vertice, in parole povere del dimissionamento del capo Di Maio, i Cinquestelle accusano una vera sindrome di sgretolamento. Tempi bui, insomma, per il movimento fondato da Grillo, forse addirittura tempestosi se, com’è probabile, si avvereranno le previsioni di un nuovo pesante flop elettorale in Emilia Romagna e Calabria. Tempi bui che lasciano presagire altri gravi inciampi per l’azione di governo. Difficoltà cui poco possono fare gli altri partner per rimediarvi.

Il Pd è meno pericolante ma sempre in affanno, alla ricerca incessante di un’identità da ricostruire, di un equilibrio da trovare nel confuso incrocio di correnti in cui vive. Italia viva e Leu, da parte loro, hanno già i loro guai per preoccuparsi del rilancio della coalizione. L’unico, vero dato positivo per il governo è che nessuno dei quattro soci ha il minimo interesse a rompere. Si dice che Conte aspiri a far rivivere i fasti della vecchia Dc. Per il momento deve accontentarsi di far rivivere il famoso detto di Andreotti: meglio tirare a campare che tirare le cuoia.

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