Un condono che non
premia chi è in regola

Chiamiamolo condono, per favore, e non più pace fiscale, perché non c’è stata una guerra tra lo Stato e chi non paga le tasse, ma la rottura spesso furbetta delle regole, la disparità con chi le ha rispettate, l’ingiustizia sostanziale. Chiudere un occhio si chiama condono. Il vero aspetto positivo di questo nuovo capitolo dell’eterno tarallucci e vino dell’Italia di oggi e di ieri, speriamo non più di domani, è che un presidente del Consiglio, per la prima volta, a domanda ha risposto: sì, è un condono.

Viva la verità, perché le parole hanno un valore. Il tema è scivoloso, è facile fare retorica pro ma anche contro, e non vorremmo cadere nel populismo al contrario, perché è col moralismo e l’indignazione (sempre contro altri) che sono stati conditi i piatti peggiori di un Paese sempre più emotivo e sempre meno razionale. Dunque, abbiamo ben presente che anche il provvedimento del primo tormentato Consiglio dei ministri dell’era Draghi ha le sue motivazioni, e per fortuna ha i suoi «paletti». Poteva andare molto peggio, in termini di equità, e chi cercava gloria presso gli evasori non l’ha trovata. Si volevano cancellare 60 milioni di pratiche fiscali, sono 7, e appartengono alle categorie del realismo, non della beneficenza o della clientela elettorale. Si metterà ad esempio il bianchetto su contenziosi in cui manca ormai la controparte: persone fisiche decedute, imprese fallite e scomparse. Giuridicamente corretto, ma tecnicamente difficile e oneroso inseguire fantasmi.

L’importo di riferimento sarà al di sotto di 5.000 euro, ovvero la pretesa iniziale del fisco sarà stata della metà, il resto essendo penali e sovrapprezzi vari. L’anno di riferimento sarà il 2010, e dunque non varrà l’alibi Covid, che all’epoca nessuno si sognava. Il piagnisteo sulle richieste di uno Stato cattivo e insensibile a gente chiusa in casa, a rischio sanitario o reddituale, in questo caso non vale. Chi non ha pagato non era in queste condizioni. Vent’anni fa ha deciso di tener duro, aspettando il Godot fiscale, complice la burocrazia fiscale.

Ultimo discrimine: la sanatoria vale solo per chi ha un reddito inferiore ai 30 mila euro. Pochi o tanti? Giudichi ciascuno, ma le tabelle del ministero delle Finanze ci dicono che più della metà dei 41 milioni di contribuenti dichiara meno di 20 mila euro. Quando si fa un condono, questi dati complessivi bisognerebbe sempre averli presenti. 30 milioni di italiani non pagano legalmente tasse (salvo ovviamente quelle indirette), 15 milioni ricevono in servizi (sanità, istruzione eccetera) più di quello che versano, il 45% dell’incasso fiscale è prodotto dal 15% dei contribuenti. Il 12% di quelli che pagano l’Irpef ne copre il 58%.

Bisognerebbe fare una riflessione complessiva su questi dati, e sul fatto che deduzioni e detrazioni valgono 110 miliardi, che la stessa cifra è calcolata per l’evasione e che vi sono vistose differenze territoriali tra Nord e Sud in merito a contribuzione ed evasione. È il discorso di una riforma attesa da un trentennio. Resta il fatto che nello stesso provvedimento di sanatoria, ci sono i debiti da scaricare sul futuro per comprare vaccini, aiutare chi è stato danneggiato da un blocco dovuto a scelte di interesse generale. Questi debiti li pagheranno tutti, tranne i beneficiati del condono. Il segnale, insomma, non è dei migliori. Un bel colpo sarebbe stato introdurre un meccanismo premiale per chi le tasse le versa con puntualità. Premiamo chi usa il bancomat, perché non prevedere un cashback anche per chi fa il suo dovere, senza fare il furbo?

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