Ue, siamo nelle mani
di Merkel e Macron

A Bruxelles si è visto quanto sia precaria la situazione dell’Italia di fronte alla procedura di infrazione per eccesso di debito avanzata dalla Commissione europea uscente. Per quanto il premier Giuseppe Conte abbia orgogliosamente ripetuto di non essere andato al Consiglio Europeo «con il cappello in mano», il governo giallo-verde ha stentato a trovare il sostegno di qualche altro partner per riuscire a frenare le intenzioni di Palais Berlaymont. Anzi.

L’impressione è che Conte, in assenza di alleati, speri piuttosto nella benevolenza di Angela Merkel e di Emmanuel Macron per rinviare la questione alla prossima Commissione che rimpiazzerà quella presieduta da Jean Claude Junker ed evitare una turbolenza sui mercati che potrebbe coinvolgere l’intera eurozona.

La posizione ufficiale del nostro Paese portata al Consiglio europeo si basava sui tre punti fondamentali esposti nella lettera ufficiale inviata da palazzo Chigi a Junker. Primo, il dichiarato rispetto delle regole comunitarie sul debito e il deficit; secondo, la contestazione delle cifre macroeconomiche fornite dai commissari per giustificare l’avvio della procedura («i conti veri li conosciamo noi, loro fanno previsioni»); terzo, la richiesta di una riforma degli accordi dell’eurozona («più di austerità che di crescita») che dovrà – secondo Conte – essere perseguita dal prossimo commissario all’economia che solo a questa condizione l’Italia - che aspira ad avere quel posto per un proprio uomo - potrà votare. L’aver legato la questione della procedura a quella delle nomine apicali dell’Unione – su cui ieri non è stato ancora trovato l’accordo – ha fornito a Conte un certo margine di trattativa, soprattutto con Merkel e Macron, confidando che tedeschi e francesi possano pretendere dalla Commissione di non insistere sulla procedura e silenziare la voce dei soliti falchi nord europei. Come quel Mark Rutte (l’olandese che governa un Paese diventato un paradiso fiscale all’interno dell’Unione) il quale ha minacciosamente ingiunto agli italiani di mettersi «rapidamente» in ordine. Ma tutto ancora è sospeso, almeno fino a mercoledì quando a Roma il Consiglio dei ministri italiano metterà sul tavolo quattro-cinque miliardi per ridurre il deficit al 2,1-2,2 per cento sul Pil; e a Bruxelles la Commissione deciderà come procedere nei confronti dell’Italia. Il commissario Moscovici è apparso ieri piuttosto negativo nei confronti delle dichiarazioni di Conte sulle regole da cambiare («prima mettevi a posto con le norme vigenti, poi se ne discute») ma, appunto, Moscovici a ottobre lascerà la sua carica a qualche altro europeo, non necessariamente più morbido di lui, si intende.

Mentre al Consiglio europeo Conte le provava tutte per portare a casa un qualche risultato, il leader della Lega (che quando parla del governo da un po’ di tempo a questa parte usa sempre più il pronome «io») continuava a bombardare l’Europa: Salvini è ovviamente impegnato anche lui a evitare la procedura di infrazione ma «non ad ogni costo»; si aspetta che l’Europa ci consenta di far crescere l’economia senza strozzarci con le sue «regole», e comunque non demorde dal volere l’inserimento della flat tax già nella prossima legge di bilancio 2020.

La tassa piatta dovrebbe costare tra i dieci e i quindici miliardi. I grillini chiedono polemicamente: dove li troviamo? E i leghisti fanno intendere che si potrebbe attingere dal fondo per gli ottanta euro renziani, che da solo vale dieci miliardi. Ma anche così facendo resterebbero da trovare altri ventitre miliardi per bloccare l’aumento dell’Iva.

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