Ue, la difesa comune
ci conviene

Alle riunioni di Bruxelles i rappresentanti di Francia e Spagna sono presenti nel 76,2% dei casi, la Germania nel 71,4%, l’Italia nel 66,6%. Questo spiega forse la disattenzione italiana verso la conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco di Baviera, svoltasi nell’ultimo fine settimana. Il contrasto tra Donald Trump e Angela Merkel ha assunto i contorni propri di una guerra commerciale anche se mascherata da vincoli di amicizia. Il cancelliere tedesco ha parlato la lingua della chiarezza. E già questo è un merito del presidente americano. Uscire dalla nebulosità del vogliamoci tutti bene è un contributo a definire i termini della questione.

Il grande equivoco sul quale ha giocato in questi anni Berlino è far credere che la globalizzazione abbia portato vantaggi a tutti. La Germania è la prima a trarre profitto dai nuovi equilibri instauratisi dopo che il Wto, organizzazione mondiale del commercio, in nome del mercato ha dato via libera ai prodotti cinesi. Ed è certamente frutto di una avveduta politica economica del governo tedesco. Va però detto che in questo cambiamento epocale sono molti quelli che hanno subito contraccolpi. Non tenerne conto vuol dire impedire ad ampie fette di popolazione di riacquistare una parte del benessere perduto. Vale per l’Italia che non riesce a prendere la via della crescita sostenibile ma vale soprattutto per gli Stati Uniti.

Un Paese abituato a guidare e che ora si trova in difficoltà proprio in quei settori che hanno creato la sua ricchezza nei decenni passati. L’industria in primo luogo. Angela Merkel dice espressamente di essere amareggiata dalla minaccia del presidente americano di introdurre dazi sulle automobili del vecchio continente. Ossia i prodotti per eccellenza della manifattura tradizionale tedesca, quella per la quale lavorano molte aziende italiane del settore. In uno slancio di orgoglio patriottico il cancelliere è giunta a dire: noi siamo orgogliosi delle nostre auto. Anche perché la fabbrica più grande della Bmw è in South Carolina, cioè negli Usa. A queste condizioni di mercato per l’industria automobilistica statunitense è impossibile raggiungere il concorrente tedesco. E questo spiega l’alleanza di Ford con Volkswagen, dove è evidente che il tempo lavora per Wolfsburg, il maggior produttore di auto al mondo. I dazi servono per recuperare terreno sia nella ricerca che nello sviluppo di prodotto dei costruttori americani. E comunque sono un’arma di pressione per indurre gli europei a farsi carico dei nuovi equilibri creatisi a svantaggio della potenza americana.

A Trump rinfacciano di trattare gli alleati come rivali e di esercitare la leadership come una dittatura. È sicuramente così nel modo come il presidente americano usa il suo potere discrezionale, ma non va dimenticato che ad un’America che perde la supremazia nel mondo ne corrisponde un’altra che prende il suo posto. E questa non è altro che la Cina. A Berlino pensano di poter trattare con Pechino per soli obiettivi economici. Ed è proprio l’errore di economicismo che colpisce il nano politico tedesco. Lo detta la sua condizione di nazione con 80 milioni di abitanti a fronte di un colosso di un miliardo e mezzo. A Monaco si sono alzati i peana per una difesa comune europea, prima condizione per esercitare una politica estera credibile. Ma di fatto abbiamo solo l’accordo franco-tedesco di Aquisgrana e già nascono i problemi legati all’export delle armi. Berlino per bocca di Wolfgang Schaeuble, ora presidente del Bundestag, vuole accellerare i processi decisionali. Chi ci sta, ci sta. Per gli altri resta la via inglese. Quella che a qualcuno a Roma farebbe anche piacere.

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