L'Editoriale
Martedì 15 Marzo 2022
Tutto cambia fuorché la denatalità
Durante i mesi di lockdown nel 2020, qualcuno avanzò l’ipotesi che dalle misure di confinamento, e quindi dal maggior tempo passato per forza di cose con i conviventi, sarebbe potuto scaturire un piccolo boom demografico. L’Istat, ieri, ha certificato che si è trattato soltanto di una illusione. Dal rapporto sulla dinamica demografica per il 2021, infatti, si evince che il malessere demografico del nostro Paese non si è alleviato ma anzi si è aggravato. Lo scorso anno i nati in Italia sono stati appena 399.431, l’1,3 per cento in meno dall’anno precedente, per la prima volta nella storia sotto la soglia di 400.000. La tendenza è di lungo termine, come ha precisato il Presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo.
La discesa dal picco del milione di nascite, raggiunto nel 1964 alla fine del «baby boom», è stata lunga. La pandemia però ha aggiunto a questa discesa una sinistra ripidità. «Il crollo delle nascite tra dicembre 2020 e febbraio 2021, da riferirsi ai mancati concepimenti durante la prima ondata pandemica - si legge nel rapporto Istat - è sintomo della posticipazione dei piani di genitorialità che si è protratta in modo più marcato nei primi sette mesi, per poi rallentare verso la fine dell’anno».
Il record minimo delle nascite (399mila), peraltro, è affiancato da un elevato numero di decessi (709mila), anch’ esso conseguenza della pandemia, il che peggiora il cosiddetto saldo naturale, portandolo a un valore negativo di 310mila unità. Soltanto nella provincia autonoma di Bolzano si registra un tasso di crescita naturale lievemente positivo, pari a +0,2 per mille. E se a livello nazionale la media è negativa, pari a -5,2 per mille, a fare peggio di tutte sono Molise (-9,5 per mille) e Campania (-5,4), un po’ meglio - per quanto sempre in territorio negativo - la Lombardia (-4,0 per mille). Il risultato, tenendo conto anche dell’immigrazione che comunque si è mantenuta su livelli più bassi che negli scorsi anni, è una ulteriore riduzione della popolazione complessiva, ormai scesa sotto i 59 milioni di abitanti, 58.983.122 per la precisione.
Dal 2014 l’Italia ha perso un milione e 300mila residenti, un po’ come se in otto anni fosse scomparsa una città come Milano. In tre settimane di conflitto bellico in Ucraina, il mondo che abbiamo di fronte agli occhi è cambiato sotto tanti punti di vista. Siamo stati costretti a rivedere convinzioni profonde e aspettative radicate. Sulla situazione demografica italiana, purtroppo, nulla è mutato. Come ha affermato il presidente Blangiardo, «mentre sul fronte dell’economia se non ci fosse stata la guerra avremmo potuto dire che in qualche modo stavamo rialzando abbastanza bene la testa. Stiamo cercando faticosamente di farlo anche dal punto divista demografico ma non è così semplice.
I segnali della demografia sono indubbiamente più deboli e anche qui ci sarà da vedere se ci sarà un effetto bellico, anche da questo punto di vista». Una riflessione utile a compiere un ragionamento più generale. L’impatto negativo della pandemia sulle nascite conferma infatti che sono le aspettative sul futuro - più che la situazione lavorativa o di reddito contingente di un certo momento - a influenzare la scelta di fare un figlio o un figlio in più. Allo stesso modo potrà agire, purtroppo, l’incertezza frutto di una guerra alle porte dell’Europa. Per invertire la rotta, le politiche pubbliche del Governo dovranno puntare a incidere proprio sulle aspettative, da un lato facendo di tutto per accrescere la consapevolezza della società sulla crisi demografica in corso, dall’altro rafforzando forme di sostegno già varate (dall’assegno unico agli interventi sugli asili) con una prospettiva credibile nel medio-lungo termine.
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