L'Editoriale
Domenica 19 Dicembre 2021
Tutti i compiti
dell’Europa
Cambiare per andare avanti e non indietro e riflettere sugli errori compiuti sono le lezioni dei fatti imposte all’Europa. Quella che conosciamo oggi è nata 30 anni fa con il Trattato di Maastricht, sottoscritto nel dicembre ’91, perfezionato nel febbraio successivo e ratificato nel ’93. L’accordo ha trasformato la Cee in Unione europea e ha posto le basi per l’euro, lasciando al tempo stesso indefinita l’identità politica internazionale del nuovo organismo. I Paesi erano 12 e oggi 27 dopo aver perso per strada l’Inghilterra e aver inglobato nel 2004-2005 il gruppone delle nazioni dell’Est. Allora regnavano indisturbati l’ottimismo capitalista e l’ordine neoliberale dell’America nella splendida solitudine di unica superpotenza. Con la fine della Guerra fredda (crollo del Muro, riunificazione tedesca, implosione dell’Urss) la storia ha ripreso a correre tumultuosa. Clinton, alla Casa Bianca dal gennaio ’93, dirigeva l’orchestra global all’insegna del primato indiscusso dell’economia, la globalizzazione sembrava andare nella direzione giusta.
Maastricht era l’espressione di un patto politico ambizioso: integrare la forza economica della «grande Germania» di Kohl, che doveva rinunciare al marco e nel pieno di una riunificazione costosissima, nella nuova architettura. Lo scambio fra euro e unificazione politica dell’Ue è riuscito solo in parte. I parametri monetari e di bilancio della Bundesbank (3% deficit-Pil e 60% debito-Pil) si sono affermati come prevalenti e per l’Italia, in transito dalla Prima alla Seconda Repubblica e all’indomani della crisi della lira, si trattava di fare i compiti a casa: la corsa verso l’unione monetaria era stata circondata da un diffuso scetticismo, ma alla fine è risultata vincente.
Il «vincolo esterno» definito dall’Europa ha funzionato, nel senso che ci ha costretto a mettere un po’ di ordine a casa nostra. L’euro ha mantenuto le promesse: moneta stabile, valuta di riserva molto richiesta sul piano internazionale. Rinunciare all’euro avrebbe significato (e significherebbe) svalutazione del cambio, perdita di ricchezza per le famiglie, crollo dei valori finanziari. Devono averlo capito anche i populisti. Il problema è che alla politica monetaria unica non corrisponde una politica di bilancio coordinata. La rigidità del Patto di stabilità, la camicia di forza dell’ortodossia fiscale, è stata definita «stupida» da Prodi e anche recentemente l’ex presidente della Commissione ha ribadito la critica: «Le scelte economiche di uno Stato non possono essere sottoposte a una regola aritmetica. La politica economica richiede elasticità. Non si può adottare la stessa politica in presenza di un’inflazione galoppante o di una disastrosa disoccupazione».
È quel che è successo con l’impatto della crisi dei subprime iniziata nel 2007 negli Usa e tre anni dopo con la crisi dei debiti sovrani e del rischio default in Paesi come Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e nella stessa Italia, dove i disavanzi pubblici persistenti hanno determinato un aumento del debito pubblico. Gli choc finanziari, le misure restrittive e i radicali mutamenti politici si sono alimentati a vicenda in un crescendo drammatico, scuotendo nelle fondamenta l’impianto comunitario e mettendo in discussione il senso dello stare insieme, della necessità di far correre i forti insieme ai deboli. Per quanto il sovranismo abbia origini diverse e lontane, ha potuto pescare nella distanza fra retorica europeista e insostenibilità sociale di un’austerità che intendeva essere espansiva e che invece s’è tramutata nel suo opposto. Se l’euro è stato salvato dalla strategia non convenzionale della Bce di Draghi, la pandemia ha rotto i vecchi tabù e reso possibile l’alternativa fin lì negata, quella cioè di iniettare potere d’acquisto nell’economia e incentivi agli investimenti. L’adozione del Next Generation Eu è insieme un ribaltone concettuale e la vera svolta della politica europea degli ultimi 15 anni. La sospensione del Patto di stabilità non ha sanato del tutto la frattura tra i rigoristi del Nord e i flessibili del Sud, mentre nel frattempo s’è accentuata la divisione orizzontale tra vecchia Europa e l’area centro-orientale sullo Stato di diritto e sulle politiche migratorie. Il cantiere resta aperto e gli equilibri rimangono fragili, perché i debiti andranno comunque restituiti. Oggi tuttavia è più matura l’idea che il rientro dovrà avvenire senza danneggiare la ripresa. I numeri collocano l’Italia al crocevia strategico della ricostruzione comunitaria: siamo stati il Paese più esposto all’attacco del Covid e quello che ha ricevuto la quota più cospicua di aiuti e finanziamenti da Bruxelles. Il nostro successo o fallimento è lo scarto che fa la differenza, capace di influenzare le prospettive dell’Ue: è lo stress test dei 27. Sempre che questo sforzo sia inteso nel suo valore: l’interesse nazionale condiviso con l’interesse europeo.
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