L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 30 Settembre 2020
Trentenni a casa
Il problema è il lavoro
Era il lontano 2007 quando l’allora ministro dell’Economia, il compianto Tommaso Padoa Schioppa, in un’audizione al Senato pronunciò la fatidica frase: «Mandiamo fuori di casa i bamboccioni». L’intento era nobile perché la battuta si riferiva agli affitti agevolati per i giovani introdotti dal governo Prodi. In realtà non fece ridere quasi nessuno ma introdusse un genere sociologico. Non erano bamboccioni, erano più sfortunati dei loro padri. Le agevolazioni non portarono fortuna. Da allora i bamboccioni si sono sempre più «incapannati». Il termine ci è tornato in mente dopo aver letto l’analisi Eurostat che pone a confronto l’età di uscita di casa dei giovani di tutta Europa. Un «ragazzo» italiano ci mette 12 anni in più di uno svedese per andarsene. Quest’ultimo, in media, se ne va che non è ancora maggiorenne, addirittura a 17 anni e mezzo, quando per noi è ancora un bambino.
In Italia invece deve aspettare fino a 30 anni. Solo Slovacchia e Croazia hanno un dato peggiore del nostro (circa 31 anni) e vai a scoprire quali misteriose affinità ci legano ai due Paesi balcanici.
Italiani mammoni? Diciamo che culturalmente l’amore di mamma un po’ ha pesato, quantomeno per rendere più sopportabile, per edulcorare il problema della mancata uscita. I produttori del celebre ed esilarante film Tangui, nella versione doppiata italiana, hanno dovuto aumentare l’età del figlio unico che non voleva alzare i tacchi di ben cinque anni. Ma le ragioni principali di questa situazione sono ben altre. A determinare il divario con gli altri Paesi del Nord sono la mancanza di opportunità nel mercato del lavoro e le politiche di Welfare. Politiche che fanno pesare l’ago della bilancia verso le generazioni del baby boom. Perché è quasi lapalissiano che senza un lavoro e un reddito adeguato non si può andare molto lontano.
Senza una busta paga la banca non solo non ti accende il mutuo, non ti rateizza nemmeno un paio di occhiali nuovi. Come si fa a metter su casa, a metter su famiglia, che guarda caso hanno significati analoghi?
Eppure noi italiani siamo stati bombardati fino a poco tempo fa dalla retorica del lavoro «flessibile», «smart», «dinamico», all’americana, che tradotto in termini contrattuali significava lavoro a termine, da rinnovarsi ogni anno come la tessera del treno. E non pare che il «Jobs Act» del governo Renzi abbia risolto il problema. Forse lo ha semplicemente incardinato giuridicamente, legittimandolo ancor di più.
Grazie alle politiche familiari ad hoc in Francia e in Germania ci si «svincola» a 23 anni e mezzo. Da notare, sempre seguendo il filo dell’indagine basata su solide fonti Eurostat, che a tenerci compagnia sono i Paesi del Sud Europa, da Malta alla Spagna alla Grecia. Dove, sempre guarda caso, la disoccupazione giovanile è altissima. I cosiddetti Neet in Italia sono circa 2 milioni, pari al 22,2 per cento dei giovani compresi tra i 15 e i 29 anni.
Nella categoria rientrano sia il neolaureato che sta cercando un lavoro sia il giovane che ha abbandonato presto gli studi, «con basso capitale sociale e forte esposizione alla demotivazione». L’età media di uscita da casa aumenta inesorabilmente in Italia dal 2006, praticamente dai tempi della definizione dei bamboccioni da parte di «TPS», acronimo con cui veniva definito sui giornali l’allora ministro dell’Economia.
Un termine che non ci ha portato fortuna. Insomma, abbiamo utilizzato l’amore per la mamma, quello cantato da Pavarotti e Beniamino Gigli, per metterla come coperchio a un dramma economico e sociale sempre più devastante. Mamma, solo per te la mia canzone vola. E intanto volava la disoccupazione giovanile.
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