Tregua Salvini-Giorgetti, ma nella Lega due visioni e il consenso in calo pesa

Il tormento politico che sta acutamente vivendo in queste ore la Lega ha una radice obiettiva: il calo elettorale del partito. Dai fasti delle Europee del 2018 a oggi, si contano ben sedici punti percentuali persi, messi in luce dalle sconfitte alle recenti amministrative. Salvini, che prese un partito a brandelli ridotto al 4%, e quindi destinato all’estinzione, lo ha portato con incredibile energia sul podio di prima forza politica italiana, ma poi - dalla pazza crisi dell’estate del Papeete - ha imboccato una strada in discesa che molti nel Carroccio temono non si sia ancora arrestata e che porti alla stabile subalternità nei confronti di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, benché anche questo partito subisca non pochi scricchiolii (sconfitta di Roma).

In una situazione del genere, era impossibile che non si levasse un vento di fronda che portasse una aperta critica alla linea politica di Salvini. E questa fronda ha sì un capofila ormai dichiarato ancorché riluttante, il ministro Giancarlo Giorgetti, ma anche un consistente retroterra soprattutto nel Nord produttivo lombardo-veneto, di quella che potremmo definire Lega «governista», che vede in Mario Draghi il garante della ripresa economica post pandemia ma anche il vettore di una migliore collocazione internazionale ed europea dell’Italia in cui trovarsi in un possibile, futuro governo di centrodestra.

Rispetto a tutto questo la linea di Salvini non può che creare tensione: l’aver troppo a lungo corteggiato i renitenti prima del vaccino e poi del Gren pass, per non perdere la gara con la Meloni - che dall’opposizione molto più agevolmente contesta ogni mossa di Roberto Speranza in nome di tutti gli scontenti - ha indispettito gli imprenditori e gli artigiani del Nord che proprio nel vaccino e nel Green pass vedono la via d’uscita per imboccare decisamente la ripresa economica e giovarsi degli imponenti finanziamenti europei.

Non solo: l’insistenza con cui Salvini lavora ad un’alleanza con i sovranisti d’Europa, gli ungheresi, i polacchi, i lepenisti francesi, incurante del fatto che sono sotto accusa per la violazione dei diritti civili, fa dire a Giorgetti (nell’ultimo libro di Bruno Vespa) che la strada è totalmente sbagliata, che così si va a sbattere o ci si caccia in un vicolo cieco, che insomma si resta tagliati fuori dal grande potere europeo accanto ai reietti di estrema destra. Semmai la strada secondo il ministro dello Sviluppo economico è quella che porta all’ingresso nel Ppe. Per tutta risposta, Salvini - che considera il Ppe «subalterno alla sinistra» - è andato ad incontrare il più isolato, insieme a Erdogan, dei leader che si sono incontrati a Roma per il G20: quel Bolsonaro che il Senato brasiliano vorrebbe condannare per lo sconsiderato negazionismo sul Covid (centinaia di migliaia di morti) e che a Glasgow è sul banco degli imputati in contumacia per la devastazione dell’Amazzonia portata agli estremi. Incontrare Bolsonaro all’indomani del successo di Draghi al G20 è apparso più che altro una provocazione. Nel frattempo Giorgetti è andato a fare un significativo viaggio negli Usa.

Questa serie di contraddizioni politiche non hanno portato, come aveva previsto solo chi non conosce la Lega, ad una drammatica spaccatura tra Salvini e Giorgetti al Consiglio federale riunitosi irritualmente a Roma ieri sera. Il primo ribadisce la propria leadership («Decido io») e il secondo gli conferma la fiducia. Insomma, tregua. Ma il nodo politico resta da sciogliere, tantopiù se - e torniamo così alla premessa di questo ragionamento - i dati elettorali continueranno a preoccupare. L’ultimo sondaggio, ieri, dava Fratelli d’Italia un punto sopra la Lega (19,9% contro 18,9%, entrambi in flessione) che scivolerebbe così al terzo posto - il Pd è risalito al primo - dopo aver occupato a lungo il podio più alto. Prima o poi da questi numeri bisognerà passare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA