Trattativa sul Mes, Meloni dura con M5s e Pd

ITALIA. Una Meloni a tutto campo che conferma punto per punto la propria linea sulla politica estera e di bilancio, sui rapporti con l’Ue, la trattativa sul nuovo Patto di Stabilità e la ratifica del Mes, sulla guerra in Ucraina e la soluzione del conflitto israelo-palestinese, e lo fa attaccando a brutto muso sia il Pd che il M5S, rinfacciando loro gli anni di governo, e non risparmiando nemmeno i concreti risultati dell’azione di Mario Draghi (sia pure poi rettificando il senso di una battuta sull’ex presidente del Consiglio).

Alla vigilia del Consiglio europeo del 13 e 14 dicembre, la premier si è mostrata straordinariamente combattiva in un’aula di Montecitorio che ribolliva come il Circo Massimo. Il nucleo dello scontro è stato ancora una volta soprattutto il combinato Mes-Patto di Stabilità: Meloni conferma di essere sempre stata contraria alla ratifica delle modifiche del Fondo e accusa Conte di aver autorizzato la riforma quando era già dimissionario, quindi in carica per i soli affari correnti, dando mandato ad un semplice ambasciatore di portare a Bruxelles il sì dell’Italia «col favore delle tenebre», quando il M5S si sbracciava nelle piazze proprio contro il Salva Stati al pari di FdI e Lega. Insomma, Meloni rinfaccia a Conte un atteggiamento di doppiezza mentre dice che oggi «l’Italia ha una sola faccia». Ripetendo così la posizione nota sul Mes, Meloni comunque afferma che «farà quel che dice il Parlamento» quando (finalmente) sarà chiamato ad esprimersi, e questo avverrà a gennaio allorché presumibilmente il nuovo Patto di Stabilità sarà stato approvato.

Tutto ciò significa che l’Italia insiste nella sua posizione negoziale per la quale prima vuole ottenere ciò che chiede per le regole fiscali della Ue e il rientro da deficit e debito, e solo poi apporre la sospirata firma sulla ratifica del Mes, ultimo tra i 17 Paesi dell’euro. Secondo non pochi osservatori questa linea negoziale «a pacchetto» non porterà i vantaggi che Roma spera di ottenere, anzi potrebbe nel frattempo comportare conseguenze negative (come il taglio di parte dei fondi per l’emergenza migranti), ma Meloni e Giorgetti non hanno alcun dubbio. Parlano di un’Italia «paese virtuoso» che tratta sul Patto «con pragmatismo e spirito costruttivo», che fa richieste non per potere spendere allegramente soldi che prende a debito, ma perché è giusto che le regole fiscali siano coerenti con le politiche che la Ue si dà: green, innovazione, difesa, le cui spese dovranno – secondo Palazzo Chigi – essere scorporate dai conteggi della Commissione. Su questo punto in effetti è difficile non consentire: se l’Unione impone ai partner certi investimenti – per esempio sulla transizione ecologica in tempi ristrettissimi – non può non tenerne conto nel momento in cui va a valutare l’indebitamento dei medesimi Paesi: il contrario sarebbe una strana forma di strabismo.

Quanto al «Paese virtuoso», anche su questo piano l’attacco a Conte è stato durissimo e si è concentrato sull’enorme esborso dell’Erario comportato dal superbonus che si è trasformato in extra-guadagni per le banche e gli istituti finanziari, per non parlare delle gigantesche truffe che la Guardia di Finanza va scoprendo man mano. «Tutte cose che noi non faremo più perché questo è il mandato che abbiamo ricevuto e che abbiamo assolto abolendo anche il reddito di cittadinanza». Uno scontro di simile durezza con la segretaria del Pd che aveva accusato la presidente del Consiglio di non sapere come funziona il Mes (che in realtà può entrare in funzione anche senza la ratifica dell’unico Paese che manca all’appello): «Se era così importante ratificarlo, chiede polemicamente Giorgia Meloni, perché non lo avete fatto voi della sinistra quando eravate al governo?».

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