Trasformisti, non è sempre
una brutta parola

Un’ombra incombe sul cammino radioso del nuovo governo giallo-rosso: l’accusa di trasformismo. Una brutta parola trasformismo. Nel gergo popolare vuol dire più o meno poltronismo: essere cioè disposti a tutto pur di non mollare la cadrega. Un vecchio vizio di noi italiani, immortalato nel motto «Francia o Spagna purché se magna». Troppo facile, però, scandalizzarsi dei facili cambi di maggioranza. Bisognerebbe provare a mettersi nei panni di un eletto, magari di un miracolato senza arte né parte (non facciamo nomi, c’è solo l’imbarazzo della scelta) a 13.000 euro al mese. Chi di noi saprebbe rinunciarci?

Usato come sinonimo di poltronismo, trasformismo ha – come si vede – un chiaro sapore diffamatorio. Non a caso è costantemente sulla bocca di Salvini e della Meloni. Chi usa la parola trasformismo in genere si riferisce appunto al vizio dei politici, tanto deprecato quanto inveterato, di tenersi stretta la poltrona alla faccia della coerenza. Può intendere, però, anche qualcosa di meno triviale, di più intrinseco alla dinamica dei sistemi politici moderni. Parliamo della confluenza di partiti storicamente rivali in una stessa maggioranza o addirittura in una stessa formazione. La storia è ricca di esempi al proposito, nobili e meno nobili. Dipende dalla ragione per cui viene consumato il cambio di casacca. Se cioè l’abbraccio tra cordiali nemici si risolve in un’ammucchiata o se, al contrario, si firma un armistizio, addirittura una pace, nel nome di un interesse generale, superiore a quello strettamente partitico.

Il termine trasformismo risale al 1876 quando destra e sinistra liberali, raggiunta l’unità d’Italia, pensarono che la loro storica contrapposizione non avesse più ragion d’essere. Consumarono la loro «trasformazione» in un nuovo corpaccione centrista. Assicurati alla madre patria Roma e il Veneto, il Risorgimento era stato a questo punto (pressoché) compiuto. D’ora in avanti ai due partiti rivali non restava che difendere l’unità dai suoi nemici, i cattolici e i socialisti. Non è difficile trovare forme di trasformismo più o meno spurie nel resto della nostra storia. All’inizio del ‘900, Giolitti si dimostrò maestro insuperabile di tattica trasformista nel combinare maggioranze con innesti ora socialisti ora cattolici. E ancora: non sono una forma di trasformismo anche le collaborazioni ministeriali strette da Dc e Pci, una prima volta nel 1945-47, una seconda nel 1976-79: una collaborazione tra due partiti alfieri di proposte di «civiltà» addirittura alternative?

Come si vede, non si possono ridurre a casi indecorosi di poltronismo né la «trasformazione» dei partiti attuata da Depretis né «la svolta liberale» di Giolitti né, tanto meno, i governi di «solidarietà nazionale» di De Gasperi e Togliatti, di Moro e Berlinguer. In tutti questi casi il trasformismo fu un modo efficace per «servire un interesse nazionale». Questa si chiamava difesa dello Stato liberale dai suoi avversari (cattolici e socialisti) nel 1876; avvio di una svolta democratica dopo la reazione di fine secolo nel 1901; promozione di una fragile democrazia dal possibile rigurgito fascista nel 1945; sua difesa dall’attacco terroristico nel 1976. Alla luce di queste considerazioni come va giudicata la rocambolesca nascita della maggioranza giallo-rossa? È un inciucio poltronista (parola di Salvini) o «l’inizio di una nuova era» (slogan della Festa dell’Unità)? Una risposta non azzardata va data solo a ragion veduta. Non la possono certo fornire le odierne dichiarazioni interessate dei protagonisti, ma solo i futuri atti del governo Conte bis. Qualche dubbio tuttavia, permetteteci la chiosa, sulla serietà degli intenti dei promotori della svolta ci è suggerito dalla tempestività – diciamo pure la fretta – con cui è stata attuata. Fare presto e bene è infatti raro.

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