Transnistria e Navalnaja, le due facce della lotta

MONDO. Oggi il discorso di Putin alla nazione prima delle presidenziali di metà marzo; domani i funerali del suo maggiore oppositore, Aleksej Navalny, in un quartiere dormitorio dell’enorme periferia di Mosca con il pericolo di scontri tra truppe anti-sommossa e dimostranti.

In precedenza, giusto per tenere desta l’attenzione: la condanna a due anni e mezzo di detenzione del dissidente Orlov (uno delle «anime» di Memorial, l’organizzazione Premio Nobel per la pace nel 2022) per aver infangato «le tradizioni russe» – invero, secondo le opposizioni, per aver definito «fascista» il capo del Cremlino; la richiesta di aiuto a Mosca della Transnistria, regione separatista della Moldova, a 80 chilometri alle spalle di Odessa e a 150-200 dal fronte sud, dove si combatte e si muore ogni giorno; il discorso commemorativo di Yulia Navalnaya al Parlamento europeo.

Durissima a Strasburgo è stata la moglie del politico anti-Cremlino, morto nell’«ultimo gulag» (questa l’etichetta assegnata dalla stampa internazionale) alla colonia penale Ik-3 nell’Artico. E diversamente non poteva essere. Il suo è stato un atto d’accusa contro Vladimir Putin, «sanguinario e mafioso»; il «capo di una banda criminale organizzata».

Secondo la Navalnaya «Putin deve rispondere di ciò che ha fatto» alla Russia, all’Ucraina e «ad Aleksej». In pratica: giustizia, non vendetta. Già da tempo a L’Aja il Tribunale internazionale dell’Onu ha aperto un procedimento contro il capo del Cremlino e ha emesso un mandato di cattura a suo carico per «crimini di guerra».

La parte più toccante del discorso della Navalnaya è stata quando ha affermato «mio marito non vedrà come sarà bella la Russia del futuro, noi sì». Anche Orlov, prima di essere ammanettato, aveva detto: «Credo in un futuro migliore per il Paese. C’è un vero futuro davanti a noi e non c’è nulla se non il passato dietro al regime».

È proprio questa visione contrastante sulla Russia a spaccare la società federale fin dai primi anni in cui al Cremlino si è insediato Vladimir Putin. Da una parte quella eltsiniana, ossia democratica, integrata con l’Occidente, dove lo stato di diritto è superiore a qualsiasi cosa. In breve, un Paese normale dopo secoli di guerre, tragedie e violenze. Dall’altra la Russia che deve compiere «una missione storica», impero e potenza, colei che, stando agli ultraconservatori moscoviti, difende oggi i «valori tradizionali» nel mondo. Il Paese che dopo il 2012 è diventato di fatto revanchista, poiché è stato «ingannato» con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, «la superpotenza scomparsa» nel 1991, e adesso, lotta per ottenere giustizia, riprendendo sotto controllo le «terre storiche dei russi».

Appunto. La richiesta di «aiuto» al Cremlino della Transnistria, che dal 2017 ha come seconda bandiera il tricolore russo e in passato ha chiesto di aderire alla Federazione senza ottenere risposta da Mosca, non è casuale e giunge in un frangente in cui le truppe federali stanno ottenendo dei «successi tattici» in Donbass. Proprio il fiume Dniestr, che da sempre segna il confine tra mondo slavo e mondo latino, è il punto d’approdo finale (per il momento) indicato dagli ultranazionalisti russi, una volta «ripreso» sotto controllo il sud dell’Ucraina. La Nato, però, - è già stato detto - non starà a guardare.

Tutti questi elementi danno la misura di quanto sia grave la situazione oggi ed evidenziano il rischio che gli eventi possano sfuggire di mano e si vada verso l’abisso nucleare. Le dichiarazioni del francese Macron sul possibile invio di soldati Nato in Ucraina non lasciano presagire nulla di buono.

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