Tra Russia e Ucraina distanze (in)colmabili

IL COMMENTO. Casomai ce ne fosse stato bisogno, la seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu a New York, mercoledì scorso, ha confermato la distanza siderale che si è creata fra Mosca e Kiev in 18 mesi dall’inizio dell’invasione su larga scala.

Quando ha preso la parola il presidente Volodymyr Zelensky, il rappresentante del Cremlino (il ministro degli Esteri Sergej Lavrov) non era in sala ad ascoltarlo. Quando è stato il turno dell’intervento del diplomatico russo, il leader ucraino ha lasciato l’aula. «Nessun terreno di contatto quindi, nemmeno per uno scontro, meno che mai per un negoziato» ha osservato Anna Zafesova, giornalista russa con cittadinanza italiana. Ma nell’assise è successo un altro fatto che va sottolineato. Il primo ministro albanese Edi Rama, presidente di turno del Consiglio di sicurezza, alle lamentele dell’ambasciatore russo Vasilij Alekseevič Nebenzja perché a Zelensky era stato concesso di parlare prima dei membri del Consiglio, ha replicato con chiarezza: «Fermate la guerra e il presidente ucraino non parlerà più». L’Albania, come tutti i Paesi dei Balcani (esclusa la Serbia) e dell’Est Europa (non la Bielorussia, fedele al Cremlino) è allineata senza distinguo con la causa di Kiev perché nella parte orientale del continente si assiste con angoscia al risorgente imperialismo russo. I media moscoviti governativi (gli unici ormai ad aver diritto di parola, dopo la chiusura di 300 fra giornali, tv e siti indipendenti, dall’inizio dell’invasione) minacciano che il prossimo obiettivo dopo l’Ucraina sarà la piccola Moldavia.

L’invocazione di pace e negoziato è sacrosanta e necessaria ma partendo dall’amara, tragica realtà: è in atto uno scontro fra un diritto (la sopravvivenza di uno Stato indipendente e sovrano riconosciuto dalla comunità internazionale nel 1991 e dalla Russia anche con altri due trattati) e un’ideologia, ribadita da Lavrov all’Onu (ridisegnare l’ordine mondiale con le armi ripristinando la grandezza dell’ex Urss, il cui scioglimento, per altro deciso a Mosca, «è stata la più grande tragedia geopolitica del ’900» come ha detto Vladimir Putin in più occasioni). A tavolino si può ragionare di cessioni territoriali alla Russia per soddisfare la brama del Cremlino evitando l’eventuale espansione del conflitto ma avendo la coscienza che verrebbe raggiunta una condizione di «non guerra», non di pace giusta. Il popolo ucraino teme questa via d’uscita perché avrebbe la Russia ancora più vicina e per ciò che accade attualmente ai non russofili nei territori occupati: secondo un rapporto della Croce Rossa internazionale, detenzioni arbitrarie, torture, sparizioni, chi non prende la cittadinanza russa perde lavoro, pensione e assistenza medica. E chi nasce in quei territori è cittadino russo, a prescindere dalla volontà dei genitori.

Sono in atto iniziative diplomatiche, anche sotto traccia, per ricomporre il conflitto ma le distanze fra le parti in causa restano incolmabili. Una forte, unitaria pressione internazionale potrebbe mettere Mosca nelle condizioni di dover recedere dai propri intenti. Sul terreno la controffensiva ucraina procede con piccoli avanzamenti quotidiani. Le parti giocano sul fattore tempo e sul logoramento altrui. Mosca confida nello sfilacciamento dell’alleanza pro Kiev anche in seguito al voto europeo del 2024, se vincessero maggioranze diverse dalle attuali. A sorpresa, il primo ministro Mateusz Morawiecki ha affermato che la Polonia non trasferirà «più armi all’Ucraina, perché ora ci stiamo armando, dobbiamo difenderci dalla Russia». È una posizione contingente da parte dell’alleato più coriaceo di Kiev: con il vicino ha aperto un contenzioso sull’import di grano che non viaggia più da Odessa e danneggia i propri agricoltori. I Repubblicani americani sono divisi sul sostegno militare al Paese invaso. Zelensky durante la visita alla Casa Bianca ha dichiarato che senza quel sostegno, lo Stato che guida verrebbe sconfitto. Con ricadute pesanti sull’Europa dell’Est e sul continente in generale. Abbiamo già misurato gli effetti dell’invasione sull’economia, sulla geopolitica e in termini di folle corsa agli armamenti.

Servirebbe una leadership lungimirante capace di pensare e di ridisegnare un nuovo ordine mondiale. Qualche segnale è arrivato proprio dall’Assemblea generale dell’Onu, a partire dalla dibattuta riforma delle stesse Nazioni Unite per renderle incidenti, adeguate ai tempi e ai nuovi assetti del mondo. È l’inizio labile di un percorso per rimettere al centro la primazia del diritto internazionale. Sempre. Altre vie con ci sono.

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