Tormentone riforme, la bandiera del governo

ITALIA. È ricominciato il gran tormentone delle riforme. Giorgia Meloni con i suoi alleati ha avviato il «dialogo» con le opposizioni ricevendo a Montecitorio Schlein e Conte, Calenda e Boschi, Bonelli e Della Vedova.

Gli uni e gli altri hanno ascoltato e parlato, ognuno ha messo i suoi paletti e tracciato le «linee rosse», le opposizioni hanno detto quasi soprattutto no e pochissimi sì, e contando gli uni e gli altri si è capito quello che già si sapeva: Meloni le riforme proverà a farle con la sua maggioranza dopo aver dichiarato a tutto il mondo che lei ci ha provato a collaborare con l’opposizione, ma purtroppo non è stata ascoltata e dunque lei ha il dovere «di attuare il mandato elettorale». Che prevede, giustappunto, il presidenzialismo, la vecchia bandiera mai ammainata della destra. Ci può essere una sola sponda alla maggioranza che cammina in solitudine, quella dei renziani e dei calendiani (separati in casa): l’ex Terzo Polo infatti è sì contrario ad eleggere direttamente il Capo dello Stato ma propone in cambio di trasformare il presidente del Consiglio, oggi un «primus inter pares», in un vero premier votato dal popolo e con i poteri conseguenti (che comunque andrebbero a limitare quelli del presidente della Repubblica, vedi la nomina dei ministri).

Ora, su questa base, Meloni Calenda e Renzi possono ragionare e trovare una qualche intesa che, se raggiunta, potrebbe consentire al centrodestra di arrivare a quella soglia dei due terzi della Camera e del Senato che consentono di approvare una riforma costituzionale in Parlamento senza andare al referendum. Già, perché questo è il vero rischio di Meloni: di fare la fine di Renzi che giocò tutte le sue carte sul tavolo della battaglia referendaria sulla sua «Grande Riforma», la perse malamente e fu immediatamente rottamato. Imparata la lezione, Giorgia intende dimostrare di essere, se possibile, più furba di Matteo, se non altro perché meno propensa al gesto guascone tanto caro al senatore toscano. Ecco perché le dichiarazioni di Calenda e Boschi sono state utili alla presidente del Consiglio e utili a loro stessi perché con quelle parole di disponibilità sono rientrati in gioco e magari ora possono uscire dall’angolo in cui si sono cacciati da soli con le loro baruffe narcisistiche.

Pd e Cinque Stelle stanno a guardare. La Schlein ha buttato là qualche proposta in astratto (cambiamo la legge elettorale, mettiamo la sfiducia costruttiva), ha ripetuto tutte le sue contrarietà che comprendono, oltre al presidenzialismo, anche l’autonomia regionale cara a Salvini, e quanto alla Bicamerale ha fatto la vaga. Che invece è l’unica cosa su cui sarebbe d’accordo Conte, ben sapendo che potrebbe facilmente trasformarsi nella stessa trappola in cui rimasero impigliati leader astutissimi come De Mita e D’Alema, ai tempi. Già, perché questo spettacolo che ieri è ricominciato sul palcoscenico di Montecitorio è un po’ come la celebre commedia di Agatha Christie, rappresentata a Londra da decenni senza interruzioni: parliamo di riforme dal 1983 e non se ne è mai venuti a capo.

Per ben due volte il popolo sovrano ha affondato riforme «organiche», quella del centrodestra i tempi del governo Berlusconi e quella già citata di Matteo Renzi. Per il resto abbiamo visto montagne di carta stampata finita al macero, cervelli finissimi inutilmente all’opera per anni, infiniti e furibondi talk show dedicati all’argomento tra lo sbadiglio del pubblico, e mai un risultato. Anzi no, una sola riforma è stata approvata ed ha veramente modificato la Costituzione: quella sciagurata del Titolo V che ha reso definitivamente ingovernabile l’apparato dello Stato. Una cosa è comunque sicura: Meloni vuole una bandiera da sbandierare, e il presidenzialismo è perfetto per questo scopo. Almeno da qui fino alle elezioni europee.

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