L'Editoriale
Giovedì 06 Giugno 2019
Tienanmen
e la memoria
È l’anniversario più indesiderato. Nessuno vuole ricordare piazza Tienanmen e il bagno di sangue ordinato dal compagno Deng. Le informazioni sono poche e ancora oggi è assai difficile ricostruire i fatti e le responsabilità politiche interne al partito comunista cinese. Neppure sul numero dei morti c’è certezza. Si va dai 319 ammessi ufficialmente dalla propaganda di Pechino a decine di migliaia denunciati da quelle occidentali. L’impressione è che mai si giungerà alla verità politica e giudiziaria su quanto accadde nella piazza più evocativa del dragone asiatico nella notte tra i 3 e il 4 giugno 1989.
La storia trent’anni fa precipitò. L’anno Ottantanove, adesso iscritto nella memoria collettiva, sembrava poter disegnare il gran finale del sistema comunista. Avvenne a novembre con la caduta del Muro di Berlino. Ma anche a causa di quell’euforia si perse immediatamente la memoria di Pechino.
Così l’Ottantanove è diventato annus mirabilis e i morti di Tienanmen sveltamente spazzati via dalle retoriche post-guerra fredda. Gli studenti cinesi sono stati massacrati nell’anno sbagliato. La Cina allora non era ciò che sarebbe diventata. L’Asia non contava, periferia del confronto tra superpotenze. Gli studenti che da mesi manifestavano in piazza a Pechino erano un fastidio nel grande gioco della normalizzazione tra Mosca e Washington. Invocavano un poco di democrazia in più e non solo i radiosi orizzonti economici promessi dal compagno Deng con la sua politica dell’autoritarismo dello sviluppo, che non ammetteva primavere.
Oggi Tienanmen resta un incidente non solo per le autorità di Pechino. È incidente per il mondo intero che fa i conti con la Cina, che detiene le chiavi di molte economie e possiede debiti sovrani importanti a cominciare da quello elevatissimo degli Stati Uniti. Perché disturbare con la memoria di Tienanmen il maggior player globale indispensabile a tutti a partire da Donald Trump? Così, come sempre è accaduto, il tema dei diritti umani resta terra promessa in ogni discussione con Pechino. Eppure nessuno si può meravigliare del fatto che l’anniversario della strage consumata sotto il ritratto di Mao sia scivolato nell’oblio. L’oblio a volte è una scelta strategica. Osservando Pechino è una scelta cruciale. Il presidente Xi Jinping ha proposto un piano, la Via della seta, che abbraccia l’intero pianeta, e non solo l’Europa, con implicazioni geostrategiche che aprono scenari nuovi sulla importanza della supremazia globale cinese. Ha lanciato sul piano interno di nuovo le parole d’ordine di una «Lunga Marcia» 4.0 e ha dimostrato al mondo di essere in grado di utilizzare con enorme e inquietante perizia l’intelligenza artificiale. Le guerre commerciali promesse, annunciate, lanciate sono un piccolo buffo che non lo disturbano. Certo i numeri dell’economia cinese sono in flessione, ma trarre conclusioni politiche negative circa presunte difficoltà di Pechino guardando alle percentuali, è sbagliato. Sono i numeri assoluti che danno la misura, nonostante tutto, della potenza cinese. Anche se il Pil ha rallentato e cresce solo del 6,5 in valori assoluti resta comunque una cifra impressionante. L’economia di Pechino oggi vale ormai due terzi di quella americana e una guerra commerciale fa più male a Washington che a Pechino. Per i diritti umani c’è sempre stato poco spazio. La partita di ping pong tra Nixon e Mao, iniziata nel 1972 e mai finita,ha sempre previsto «un approccio costruttivo» sull’argomento. La desistenza su Tienanmen ne è il risultato perfetto. Il mondo non può permettersi di impallidire di fronte all’orrore di turno. Né a Tienanmen trent’anni fa, né sulla piazze siriane e yemenite oggi.
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