L'Editoriale
Giovedì 30 Gennaio 2020
Terra Santa, la pace
ingiusta di Trump
L’unica notizia buona, a volerla cercare, è la presentazione di un piano di pace per mettere fine al conflitto israelo-palestinese dopo 12 anni privi di qualsiasi iniziativa. L’ultimo tentativo, il tredicesimo, risale infatti al 2007: la Conferenza di Annapolis tra il presidente palestinese Abu Mazen e l’allora premier israeliano Ehud Olmert. Poi più niente: la parola solo alle armi. Ma definire piano di pace quello presentato dal presidente statunitense l’altro giorno è un’offesa al senso di giustizia.
Vediamo in cosa consiste: due Stati, israeliano e palestinese, ma quest’ultimo con notevoli limitazioni. La Palestina infatti non potrà avere un esercito né firmare accordi di difesa con altri Stati, non controllerà i suoi confini esterni e il suo spazio aereo. Gerusalemme unita rimane la capitale di Israele, e solo in uno dei sobborghi della Città Santa (Abu Dis) potrebbe sorgere la capitale palestinese. In Cisgiordania quasi tutti gli insediamenti ebraici legali (secondo il governo israeliano) diventeranno Stato di Israele.
Il premier uscente (il Paese ebraico dovrà tornare al voto il prossimo 2 marzo per la terza volta in un anno, non riuscendo a formare una maggioranza) Benjamin Netanyahu ha già convocato per domenica un consiglio dei ministri per annettere il 30% della Cisgiordania, compresa la Valle del Giordano. Sarà una mossa choc per i palestinesi. È poi prevista la costruzione di un tunnel per collegare la Cisgiordania alla Striscia di Gaza.
Le colonie nel territorio palestinese rappresentano una violazione del diritto internazionale, secondo il quale uno Stato occupante non può alterare la geografia del territorio occupato. Il piano Trump di fatto si limita a fotografare l’esistente, senza chiedere alcun sacrificio a Tel Aviv: la pace invece è sempre figlia di un compromesso, quindi anche di rinunce. Lo Stato palestinese che dovrebbe nascere sarebbe un «bantustan» intervallato dagli insediamenti ebraici e da strade percorribili dai soli coloni: oggi in Cisgiordania per percorrere 20 km in auto i palestinesi impiegano anche un giorno. Il piano prevede poi scambi di territori: alcune aree in Israele nel deserto (deserto...) a sud verso Gaza verrebbero trasferite agli arabi. Trump dimostra di avere coscienza della situazione umanitaria nella Striscia (l’area al mondo con la più alta densità abitativa, il 79% delle famiglie vive in povertà e non può lasciare il territorio) ma non ha mai mosso un dito per sostenere la popolazione: ora prevede aiuti per 50 miliardi di dollari al nuovo Stato e lo sviluppo di una zona industriale proprio a sud di Gaza.
Fin qui il merito. C’è poi un enorme problema di metodo: il piano è stato infatti redatto dal consigliere e genero del presidente Usa, Jared Kushner, e presentato riservatamente lunedì a Netanyahu e al suo rivale politico Benny Gantz. L’Autorità palestinese è stata tagliata fuori. Secondo l’assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa il piano «unilaterale non porta soluzione ma al contrario crea maggiore tensione e probabilmente più violenza e spargimento di sangue». La proposta Trump va inquadrata dentro una prospettiva più grande. È stata approvata dall’Arabia Saudita, alleata di Washington e di Tel Aviv, e bocciata dall’Iran, che attraverso gli Hezbollah libanesi appoggia Hamas, organizzazione che fa uso del terrorismo, del quale non può risponderne un intero popolo, ma anche partito e movimento sociale. Nel 2006 gli Stati Uniti (unico alleato occidentale che conta davvero agli occhi di Israele) imposero elezioni ai palestinesi: vinse Hamas, sulla lista nera della Casa Bianca. Da allora ogni tentativo di arginare l’organizzazione islamista è fallito. Ci sarebbe da riflettere sulla politica americana in Terra Santa.
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