Tenere alta la tensione, l’obiettivo di Netanyahu

MONDO. L’uccisione di Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas eliminato da un missile mentre era a Teheran, autorizza diverse ipotesi. Compresa quella di un tradimento. Haniyeh viveva a Doha, in Qatar, un santuario che lasciava molto di rado.

La capitale iraniana, dov’era arrivato per l’inaugurazione della presidenza di Masoud Pezeshkian, doveva essere, per lui, un altro rifugio sicuro. E invece… Va però ricordato che quello di luglio è stato un mese di fuoco per i servizi segreti e le forze speciali di Israele. Prima hanno cercato di eliminare Mohammed Deif (uno degli organizzatori della strage del 7 ottobre 2023) bombardando un campo profughi a Gaza, con 90 morti civili nel passaggio. Poi hanno colpito il porto di Hodeida nello Yemen, ritenuto il centro di smistamento delle armi iraniane. Infine, dopo la strage dei ragazzini drusi nel villaggio di Majdal Shams, nei territori occupati del Golan, hanno cercato di uccidere a Beirut uno dei capi militari di Hezbollah, il famoso e famigerato Fuad Shukr. Quindi anche l’uccisione di Haniyeh, che potrebbe essere stata improvvisata grazie appunto a un tradimento o a un’improvvisa finestra di opportunità, rientra in un ampio sforzo programmatico di Israele per colpire i suoi nemici. Come ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant: «Ovunque essi si trovino».

La domanda del giorno, però, è: che cosa potrà succedere adesso? L’abbiamo definita «del giorno» ma è la domanda che ricorre dal 7 ottobre scorso, dal giorno in cui Hamas scagliò i suoi killer contro i militari e soprattutto i civili israeliani. Sottinteso è, ovviamente, il timore che la guerra tra Israele e i palestinesi, già terribile di suo, possa degenerare in una grande guerra regionale. Che, a sua volta, potrebbe coinvolgere anche potenze di calibro più che regionale. Non sono mancate le avvisaglie. Nell’aprile scorso, l’attacco dell’Iran contro Israele, arrivato dopo un bombardamento israeliano su una sede di Damasco (Siria) delle Guardie della rivoluzione, provocò l’intervento anche di Francia, Usa e Regno Unito. Proprio quell’esempio, però, dovrebbe farci evitare le previsioni più fosche. I missili e i droni iraniani erano «telefonati», Israele e gli alleati ebbero tutto il tempo per abbatterli prima che arrivassero in zone pericolose. E la risposta di Israele fu, a sua volta, molto contenuta, quasi dimostrativa.

E poi, chi avrebbe interesse a un’altra grande guerra in Medio Oriente? Non certo il Libano. Non l’Iran, che non ha le capacità di reggere un vero scontro con Israele (che a quel punto sarebbe appoggiato dagli Usa) e ha comunque ben altri problemi, vista la facilità con cui si può colpire sul suo territorio. Non la disastrata Siria e men che meno l’Egitto. Anche per questo Israele agisce indisturbato: sa che in caso di vero pericolo avrebbe molti sostegni; e se non c’è vero pericolo, ha tutti i mezzi per fare da solo.

I veri problemi, per Israele, arrivano da Hamas e Hezbollah, forti abbastanza da inquietare la popolazione e tenere impegnato l’esercito. Con le conseguenze che vediamo: a Gaza la strage indiscriminata che riempie di sdegno anche molti amici di un tempo (metà dei parlamentari democratici Usa non sono andati al Congresso a sentire Netanyahu), al confine col Libano un susseguirsi di rappresaglie che comunque non consente a migliaia di israeliani di tornare nelle case nella Galilea del Nord. Ed è appunto su questi due nemici che Israele colpisce più forte. Benjamin Netanyahu, ormai è chiaro, vuole che lo stato di guerra duri. Finché c’è guerra, lui ha speranza di conservare il potere. Quindi l’eliminazione di Haniyeh, al di là dei vantaggi tattici, è per lui un ottimo risultato politico. Rialza la tensione. Zavorra molto pesantemente le trattative con Hamas per una tregua con liberazione degli ostaggi. Ma soprattutto rallenta, e forse blocca, quel processo di composizione delle lotte tra fazioni palestinesi, e soprattutto tra Hamas e Al Fatah, che con la mediazione della Cina sembrava aver preso un pur faticoso avvio. Vedere le diverse anime palestinesi compatte sotto un’unica bandiera, e quindi con un potere contrattuale maggiore, è l’ultima delle cose che Netanyahu può desiderare.

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