L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 12 Novembre 2019
Tecnologia e scuola
Alleanza virtuosa
Negli ultimi dieci anni in Italia sono fallite più di centomila imprese. Nel 2009 erano circa novemila, sei anni dopo erano schizzate a circa quindicimila all’anno. Tanti anonimi silenziosi che se vanno perchè non tengono più il mercato. C’è un problema in Italia e si chiama industria. Negli altri Paesi monitorati dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le aziende fallite sono in calo, con numeri inferiori al 2008, anno in cui la bolla finanziaria e immobiliare dei derivati scoppiò.
Le imprese che chiudono i battenti calano in Olanda, dati del 2016, circa del 30%, in Germania del 22% ed anche la Spagna in quell’anno registra un meno 4%. Convinciamoci, la crisi italiana dell’industria non può nascondersi dietro i numeri brillanti del nostro export. Imprese competitive che viaggiano sui mercati mondiali con grande vantaggio per l’economia ma che hanno sulle spalle un Paese dove l’arretratezza prevale. Ogni giorno chiudono per insolvenza 57 imprese.
Ora tutti sanno che il futuro è fatto di due fattori: tecnologia e scuola. Se guardiamo il bilancio dello Stato dal 2008 al 2018, vediamo che sono stati fatti 553 miliardi di nuovo debito, e di questi soldi pochi sono finiti nell’innovazione tecnologica.
Il progetto Industria 4.0, unico vero provvedimento legislativo di significato per la modernizzazione degli impianti e quindi la competitività delle imprese dal precedente governo era stato ridotto e bloccato.
Il Movimento 5 Stelle ha interpretato la crisi nella quale si dibatte la nostra industria come occasione per uscire dai settori ritenuti non in linea con lo spirito del tempo. No alla grandi infrastrutture come la Torino-Lione, no al gasdotto Tap, no all’acciaieria di Taranto.
Vi è una parte del Paese, anche giovane, che si è ricollegata alla tradizione agricola dei nonni e quindi si è opposta all’idea intrapresa, perché non è giusto comprare il nostro futuro. Occorre ricostruirlo dalle fondamenta con un’idea di decrescita che ci porterebbe all’idillio bucolico.
Ma chi mantiene questo utopico progetto? La realtà di questi giorni ci dice che le acciaierie sono inquinanti, ma necessarie per lo sviluppo del Paese. Una politica accorta si impegna non ad eliminare le acciaierie, ma a renderle moderne, vivibili e competitive. Non mancano le tecnologie ma bisogna sporcarsi le mani.
Quello che in Italia è da sempre il problema è la quotidianità. La politica del passo per passo è noiosa ed è fatta di piccole cose che non fanno notizia per i giornali, ma sono vitali per il percorso virtuoso di un risanamento. Si cita l’area della Ruhr come esempio di dismissione. Un’area del Land del Nord Reno-Vestfalia segnata dal carbone e dall’ acciaio riconvertita a parco naturalistico e museo. Ci si dimentica di dire però che la Germania non ha rinunciato alla produzione del metallo indispensabile per le sue aziende. Ha solo razionalizzato la produzione e si è adattata a modelli di sviluppo meno inquinanti.
È forse pensabile che il primo produttore di auto al mondo si metta in mano ai siti produttivi cinesi o indiani e ne subisca i possibili ricatti o condizionamenti? Questo sarebbe il destino della manifattura italiana, tra le prime nella meccanica, senza l’acciaio di Taranto. Diverrebbe ostaggio dei fornitori esteri della materia indispensabile alla produzione.
Abbiamo assistito in breve lasso di tempo alla crisi Alcoa dell’alluminio in Sardegna, a Whirpool di Napoli , chiusa in un battibaleno, ad Alitalia (dove Lufthansa, ancor prima di sedersi al tavolo, impone e non tratta) e adesso Arcelor Mittal che osa imporsi con un diktat al governo. Ma la dignità nazionale esiste ancora?
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