L'Editoriale
Giovedì 10 Dicembre 2020
Tecnici e potere di Conte
La sfida di Renzi
Se è vero che Giuseppe Conte si presenta oggi al Consiglio europeo con le carte in regola e il via libera di entrambi i rami del Parlamento alla riforma del Mes decisa dall’Eurogruppo, è anche vero che restano intatti tutti i motivi di tensione e di divisione all’interno della maggioranza che conoscevamo. E questo si è capito non tanto dalla fronda grillina, che in realtà si è assai ridimensionata e sgonfiata, quanto dall’intervento in Senato di Matteo Renzi e dal plauso che il suo durissimo intervento contro Conte ha ricevuto in tutti i settori parlamentari, dal centrodestra al Pd. Perché? Perché più o meno tutti, non solo l’opposizione ma anche nella maggioranza, contestano a Conte un leaderismo non legittimato da una autentica forza politica ma da una posizione di vantaggio, quella appunto di presidente del Consiglio di un governo che non ha alternative se non le elezioni anticipate che quasi nessuno vuole.
E quindi, passata la battaglia sulla riforma del Mes, archiviata perché banalmente nessuno (soprattutto i grillini) vuole correre il rischio di far cadere il governo all’improvviso e quindi tornare a casa senza alcuna speranza di fare ritorno a Roma, lo scontro si concentra sul Recovery Plan e su come organizzare le richieste dell’Italia per ottenere i 209 miliardi.
Renzi contesta a Conte di voler accentrare tutto a Palazzo Chigi e l’applauso che riceve il suo intervento dice che ben pochi accettano che le grandi decisioni le prendano Conte, il suo staff e un gruppo di tecnici ancorché autorevoli. La famosa «cabina di regia» è invisa a tutti perché i progetti da finanziare con una cifra colossale che teoricamente potrebbero cambiare il volto all’Italia, sono fonte di consenso politico: nessun partito può rinunciare a influenzare le scelte e a chiedere su questa influenza esercitata il voto dell’elettorato. Ecco la rivolta di Renzi che mette sul piatto le dimissioni dei suoi ministri e sottosegretari facendo salire la tensione sino a un millimetro dal punto di rottura: l’ex segretario del Pd infatti non vuole che Conte cada ma pretende di condizionarlo. Esattamente quel che cerca Nicola Zingaretti a sua volta stufo degli atteggiamenti di Conte e delle beghe grilline. E lo stesso desidera Di Maio che deve affrontare i mille dissensi del suo partito ormai quasi fuori controllo e si sente oscurato dal protagonismo del presidente del Consiglio più presenzialista che la storia ricordi: nessuno ha mai fatto tante conferenze stampa in diretta televisiva all’ora di cena, anche quando magari non erano giustificate dall’emergenza Covid.
Quindi il punto vero, ciò che dimostra la giornata parlamentare di ieri che molti si aspettavano campale e drammatica, è la impotenza dei protagonisti di una situazione bloccata. I partiti di maggioranza protestano contro il loro presidente del Consiglio che però non osano buttare giù; i partiti dell’opposizione attaccano un governo ma non hanno alcuna intenzione di misurarsi ora con elezioni che quasi certamente vincerebbero ma che farebbe piombare sulle loro spalle il peso di una crisi economica enorme. E dunque Conte resta al suo posto protetto dal mantello quirinalizio: al Colle sta a cuore soprattutto la stabilità del governo, poter presentare a Bruxelles un’Italia con qualcuno al timone, dove qualcosa si fa e, se anche non è tutto oro quel che riluce, è sempre meglio di un periodo di sbandamento senza guida. Il punto è come davvero si potrà affrontare in queste condizioni la grande partita del Recovery Plan che è assolutamente decisiva per le sorti di un Paese come il nostro così ferocemente colpito dalla pandemia.
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