Sul salario minimo, la dignità fa sentenza

ITALIA. Sul salario minimo garantito il governo prende tempo e la Cassazione interviene, introducendolo per sentenza, come nella Common law anglosassone.

Un precedente destinato a fare storia con il quale i supremi giudici dell’Alta Corte hanno stabilito che la retribuzione minima di un lavoratore può essere fissata anche dai tribunali. La decisione infatti rafforza il ruolo dei giudici nel definire se uno stipendio è adeguato o no, indipendentemente dal fatto che l’importo percepito rispetti il minimo indicato dal contratto collettivo applicato dall’azienda. Perché un salario – contratto o non contratto - deve essere effettivamente proporzionato a quanto recita l’articolo 36 della Costituzione: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Un dettato che riecheggia la «giusta mercede» di biblica memoria (Geremia nell’Antico Testamento e Luca nel Vangelo).

Come si sa, sul salario minimo vi è da tempo un grosso dibattito non solo tra giuslavoristi, che finora ha portato a un nulla di fatto. Il premier Giorgia Meloni ad esempio ha più volte spiegato che un salario minimo in Italia non è necessario, in quanto è la contrattazione collettiva a garantire uno stipendio adeguato al lavoratore. Tuttavia, come abbiamo detto, la Corte di Cassazione ha decretato che la presenza dei contratti collettivi non basta a impedire l’intervento dei magistrati, i quali devono verificare autonomamente se lo stipendio pagato al dipendente rispetta o meno i principi fondamentali dettati dalla Costituzione.

A essere contrari al salario minimo garantito sono soprattutto le parti sociali, dunque i datori di lavoro e i sindacati, firmatari degli accordi nazionali (che solitamente servono a proteggere i dipendenti dalle spinte inflattive e a fissare le regole generali legate alla categoria). E infatti per decenni non se n’è fatto nulla, fino a quando non è intervenuta, smuovendo le acque, l’Unione europea, annunciando una direttiva in arrivo.

In realtà questo dibattito è abbastanza surreale poiché una cosa non esclude l’altra. Un salario minimo fissato per legge infatti non abbatterebbe certo i livelli dei salari contrattuali ma semmai potrebbe migliorarli. Gli studi in materia hanno dimostrato che una riserva di legge garantirebbe una tutela minimale a settori «selvaggi», come quello legato a certi subappalti nel settore delle cooperative, principale fonte di schiavismo nel nostro Paese. Tutela che il sindacato non è in grado di garantire. Legittimando peraltro l’intervento del giudice – come ha stabilito la Cassazione - in tutti quei casi in cui si ritiene che lo stipendio percepito non sia adeguato e sufficiente per condurre una vita dignitosa. Quanto ai contratti nazionali (a volte in ritardo rispetto all’aumento dell’inflazione che rosicchia i redditi, mettendo in difficoltà soprattutto i percettori degli stipendi medio-bassi), questi non verrebbero sostituiti dal salario minimo, ma semplicemente riceverebbero una sorta di piattaforma di base da cui partire per migliorare le condizioni economiche dei lavoratori.

In Parlamento ci sono disegni di legge che cercano di superare questo tipo di ostacoli, demandando in prima battuta proprio alle parti sociali la definizione del minimo salariale che poi verrà approvato per legge, ma con un parametro di base per settori non coperti dalla contrattazione. Certo questi parametri non sono semplici da fissare (lo stesso stipendio a Palermo ha maggiore potere d’acquisto che a Milano, ad esempio) però ci si può arrivare, magari con l’aiuto del Cnel. Il problema è che l’avversione c’è anche per il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. E infatti la Cgil è contraria e la Uil si è astenuta sul primo documento tecnico dei «saggi» dell’economia, che inquadra la questione del lavoro povero e della giusta mercede. La strada per arrivare a una soluzione condivisa, insomma, è ancora lunga.

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