Sul lavoro più fiducia senza eccessi di ottimismo

ITALIA. «L’irrobustimento delle imprese, la solida posizione finanziaria delle famiglie e la forza delle banche ci consentono di guardare avanti con fiducia - ha detto il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta - ma non devono indurre a un eccessivo ottimismo».

Le parole del numero uno di Palazzo Koch suggeriscono un metodo di lettura della realtà economica di cui oggi dovrebbe far tesoro tutta la classe dirigente del nostro Paese. Esortano a un approccio consapevole dei punti di forza dell’Italia, il più possibile distante da visioni partigiane - inclini a selezionare i dati più sconfortanti per dipingere scenari apocalittici o a cogliere soltanto quelli positivi per tratteggiare un Paradiso in terra - e infine volto a guardare al di là della mera contingenza per riflettere invece sulle sfide future. Se lo stato di salute complessivo dell’economia italiana è dunque quello descritto sinteticamente dal Governatore, proviamo a focalizzarci sul tema del lavoro, anche alla luce di alcuni nuovi dati forniti ieri dall’Ocse.

Per l’organizzazione internazionale con sede a Parigi, nonostante il rallentamento della crescita economica, «il mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli record di occupazione e livelli minimi di disoccupazione e inattività». Il tasso di disoccupazione, nel maggio scorso, era al 6,8%, cioè un punto in meno rispetto ad appena un anno fa e tre punti in meno rispetto al periodo pre-pandemia, cioè al 2019. Aumenta di pari passo il numero delle persone impiegate, con il tasso di occupazione che nel primo trimestre di quest’anno è salito al 62,1%, uno dei livelli più alti segnati in Italia, un dato destinato a crescere ulteriormente nei prossimi due anni, seppure ancora lontano dal 70,2% della media dei Paesi industrializzati dell’area Ocse. Come ha detto Andrea Garnero, economista italiano e tra gli autori del rapporto, siamo indubbiamente di fronte ad alcuni «record» positivi, ma pur sempre record italiani e dunque «relativi». Se invece spostiamo il focus dal numero dei posti di lavoro agli stipendi, secondo l’Ocse, in Italia nel primo trimestre di quest’anno i salari reali erano ancora inferiori del 6,9% rispetto all’ultimo trimestre del 2019. Il nostro è dunque tra i Paesi che - sulla scorta prima della pandemia, poi della crisi ucraina e di quella energetica - hanno registrato il più brusco calo della quantità di beni e servizi che possiamo acquistare con uno stipendio medio. Solo in 19 Paesi sui 35 dell’Ocse si è tornati ai livelli pre-2020.

In Italia negli ultimi mesi si sta recuperando un po’ del terreno perduto, si legge ancora nel rapporto, grazie ai «rinnovi di importanti contratti collettivi, soprattutto nei servizi», e in generale a una crescita dei salari nominali superiore a quella dell’inflazione, previste rispettivamente quest’anno al più 2,7% e al più 1,1%. D’altronde è almeno ventennale la stagnazione dei salari medi nazionali. In termini pro capite, il reddito reale disponibile delle famiglie italiane è infatti fermo al 2000, mentre in Francia e in Germania da allora è aumentato di oltre un quinto. Al di là della recente fiammata inflazionistica, il principale indiziato di questo stato di cose è il ristagno della produttività della nostra economia, una grandezza che spesso misuriamo - ricorda Salvatore Rossi nel suo «Breve racconto dell’Italia nel mondo» (Il Mulino) - con il prodotto realizzato con un’ora di lavoro di un occupato: «Sarà tanto più alto quanto maggiori sono le abilità e le conoscenze dei lavoratori, quanto più sofisticati sono i mezzi tecnici messi a loro disposizione, quanto più capaci sono gli organizzatori della produzione (manager e imprenditori) di combinare efficacemente il fattore lavoro e il fattore capitale fisico, usando la migliore tecnologia disponibile». Se la sfida della produttività è così datata, invece di polemiche e scaricabarile è necessario uno sforzo di particolare «concentrazione» sul tema al livello di sistema-Paese.

Mutuando alcune indicazioni dalla psicologia, nella nostra quotidianità la concentrazione massima avviene nello «stato di flusso»: quando abbiamo obiettivi chiaramente definitivi, significativi per la nostra vita, e svolgiamo attività che si collocano al limite delle nostre possibilità ma non oltre le stesse. Nel caso del nodo-produttività, le variabili sui cui intervenire sono tante ma note, la centralità del lavoro (e degli stipendi) per milioni di italiani è indubbia e altri Paesi comparabili al nostro hanno vinto una sfida simile. Ecco perché dalla classe dirigente nazionale è lecito attendersi un’assunzione collettiva di responsabilità in tal senso.

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