L'Editoriale
Venerdì 27 Gennaio 2023
Studiare l’Olocausto, antidoto all’oblio
Attualità. «So cosa dice la gente del Giorno della Memoria. La gente già da anni lo dice, basta con questa idea, che cosa noiosa». Lo sfogo amaro di qualche giorno fa da parte della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, è stato forse liquidato un po’ troppo in fretta. Dobbiamo leggerlo come il pericolo che da sempre aleggia sullo sterminio di 11 milioni di uomini e donne: quello dell’oblio.
Nel consorzio umano nulla è per sempre: anche un’ecatombe come l’Olocausto, il «precipizio criminale del ’900», rischia di scomparire nel dimenticatoio o - forse peggio - essere confusa con altre stragi o altri genocidi, così da indebolirne la portata e la gravità morale, in un gioco a somma zero per cui tutti sono colpevoli e nessuno è colpevole («e allora le foibe?», è il refrain dei moralisti d’accatto quando si parla della Shoah). Proprio per questo anche la «unicità» di Auschwitz è un valore da preservare.
E allora qual è l’antidoto all’oblio e alla «noia» evocata dalla senatrice Segre, questa «Simone Weil» italiana «portatrice di testimonianza»? La risposta è il culto scientifico della storia, la ricerca e la conservazione dei documenti e delle prove, l’attenzione alle testimonianze, la saggistica, la letteratura, la circolazione delle idee, anche attraverso il cinema e il teatro, così da alimentare, come diceva Ermanno Olmi, «il sentimento della realtà». Un esempio è «Il cacciatore di nazisti». L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal, il monologo scritto da Giorgio Gallione e recitato da Remo Girone, andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, altissimo esempio di teatro civile che si fa testimonianza, ricordo, sofferenza e sdegno morale. Dovrebbe essere recitato in ogni scuola. E a proposito di scuola, perché non portare tutti gli studenti delle classi quinte ad Auschwitz e a Birkenau, i due luoghi dell’orrore a 70 chilometri da Cracovia divenuti il simbolo dello sterminio? Come fa Paolo Paticchio, il docente pugliese che dal 2006 a oggi, come presidente dell’associazione «Treno della Memoria» ha accompagnato 60mila italiani, per lo più studenti, a scoprire i campi di sterminio nazisti congegnati nell’ambito della soluzione finale da Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann e altri gerarchi e politici nazisti nella Conferenza di Wannsee, alle porte di Berlino, nel 1942. Primo e forse unico esempio di «genocidio industriale».
Ma qui sorge spontaneo farsi una domanda sulla scuola italiana. Dove vanno in gita i nostri ragazzi? In quante scuole si studia a memoria (sì, andrebbe imparata a memoria) la poesia di Primo Levi che apre «Se questo è un uomo» («Voi, che vivete sicuri nelle vostre tiepide case …»). E ancora, quanti professori di storia o di italiano fanno leggere la «Banalità del male» di Hannah Arendt per riflettere sul perché i nazisti delle Waffen SS, individui così normali, così mediocri, che amavano tanto i loro bambini e chiedevano nelle lettere alla moglie notizie sulle rose del loro giardino, poi riempivano le buche delle piste di atterraggio degli aeroporti della Luftwaffe con montagne di cadaveri di internati, uccidevano, gasavano, pestavano a morte, sbattevano i bambini contro i muri come fossero bambolotti inanimati e altre atrocità, come se si trattasse di normale amministrazione? Sottolineando un fatto inconfutabile: nessun ufficiale delle SS, nessun aguzzino avrebbe rischiato qualcosa se si fosse rifiutato di eseguire gli ordini di sterminio. Quando avveniva, il soggetto non veniva nemmeno sottoposto a una punizione o ad un ammonimento. I nazisti che hanno partecipato alla soluzione finale, a cominciare dalle Waffen SS, sono stati tutti volonterosi carnefici di Hitler. In quante scuole si insegnano le leggi razziali del ’38, così tanto spesso «lasciate indietro perché siamo in ritardo con il programma», preludio inevitabile in Italia allo sterminio?
Non bastano le pur meritorie «pietre d’inciampo» sui marciapiedi delle nostre città per tenere vivo il ricordo di quando l’umanità finì nell’abisso. Non bastano i monumenti. Del resto furono gli stessi nazisti per primi a cercare di cancellare ogni prova del loro disegno di morte in prossimità dell’arrivo degli Alleati. Le stesse vittime non ebbero diritto a una tomba, vennero trasformati in cenere nel vento. Quello della Shoah è un ricordo che va tenuto vivo a cominciare dai più giovani, possibilmente tra i banchi di scuola, poiché il Leviatano della mostruosità nazista non è morto, è solo addormentato: sta a tutti noi mantenerlo in un sonno eterno e divenire a nostra volta «sopravvissuti» e dunque «portatori di testimonianza».
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