Stretta Usa e deflazione: la Cina è (meno) vicina

IL COMMENTO. Le armi in Ucraina purtroppo ancora non tacciono, e le prospettive economiche – ha avvertito ieri la Banca centrale europea - rimangono «estremamente incerte» a causa dei nuovi possibili contraccolpi del conflitto sui prezzi energetici ed alimentari.

Tuttavia, nel medio-lungo periodo, lo stato di salute dell’economia europea dipenderà da un altro fronte aperto, per quanto da noi geograficamente distante e per il momento meno «caldo», cioè dalla sfida sempre più serrata tra Stati Uniti e Cina, le prime due potenze del pianeta. È proprio tenendo conto di questo orizzonte più largo che il Governo e gli imprenditori del nostro Paese farebbero bene a prendere nota di due novità registrate nelle ultime ore, solo apparentemente slegate fra loro.

La prima novità è l’ordine esecutivo firmato mercoledì notte dal presidente degli Stati Uniti, con il quale Joe Biden ha deciso una stretta sugli investimenti high-tech americani alla volta della Cina. «Una mossa dettata da motivi di sicurezza nazionale e non da motivi economici», ha spiegato un funzionario dell’Amministrazione. Con i nuovi paletti imposti nei settori dei microchip, della microelettronica, della meccanica quantistica e dell’intelligenza artificiale, Washington intende infatti limitare la capacità cinese di fare leva sugli investimenti americani per rafforzare le proprie capacità tecnologiche soprattutto in ambito militare.

La seconda novità di cui prendere nota è arrivata, nelle stesse ore, direttamente da Pechino. La Cina infatti è ufficialmente scivolata in deflazione per la prima volta dal febbraio 2021. Mentre gran parte del mondo, Italia inclusa, è alle prese con un’impennata dei prezzi che si fatica a domare, l’ex Impero Celeste ha registrato a luglio una brusca frenata dei prezzi al consumo (-0,3% annuo) e alla produzione (-4,4%) a causa della debolezza della domanda interna ed estera. Dati deludenti che arrivano dopo quelli altrettanto negativi di martedì scorso sull’interscambio commerciale cinese che, sempre per il mese di luglio, descrivono un crollo delle esportazioni dalla cosiddetta «fabbrica del mondo» (-14,5%) e delle importazioni (-12,4%). Pechino cresce, ma si sta riprendendo con molta più fatica del previsto dal periodo buio della pandemia. Al punto che alcuni analisti tornano a ipotizzare, nel caso l’attuale situazione si dovesse prolungare, problemi futuri di tenuta sociale, dovuti per esempio a una disoccupazione giovanile record (20%) in un Paese dal welfare state quantomeno gracile.

Da queste due novità, discendono considerazioni di ordine geopolitico ed economico per un Paese come il nostro. La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha affermato più volte la netta posizione del Governo in politica estera, ribadendo la convinta adesione ai valori e alle posizioni dei nostri partner tradizionali, in primis gli Stati Uniti (oltre che l’Unione europea). Ora occorrerà prendere atto, anche al livello di leadership imprenditoriale italiana, che il cosiddetto «derisking» promosso dall’alleato americano nei confronti della Cina non è soltanto una formula a effetto con cui animare convegni e scrivere dotti paper, ma una strategia gravida di conseguenze concrete per gli investitori cinesi come per quelli occidentali.

A maggior ragione in un Paese come il nostro che nel 2019, per volontà del Governo Conte, ha deciso – unico Paese del G7 - di aderire alla cosiddetta nuova «Via della Seta» promossa dal Partito comunista cinese. Alla luce degli annunci stentorei di Biden, come dell’andamento tutt’altro che straordinario dell’economia cinese, si rafforzano dunque le ragioni di principio e anche quelle di opportunità e convenienza per ripensare quell’adesione.

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