Strategia energetica, i ritardi dell’Europa

Il commento. L’ Italia è al primo posto in Europa per investimenti nella produzione dell’idrogeno. Sono dieci al 2030 i miliardi stanziati per sistemi di elettrolizzazione, ovvero il processo che porta alla creazione di idrogeno industriale. Non è banale pensare di raggiungere al 2050 un livello di consumo di idrogeno calcolato al 20% dell’energia prodotta. La questione strategica non è il metano. Lo sanno anche i russi che hanno scatenato la guerra sapendo che il distacco dal gas era solo una questione di tempo.

Il tema vero sono le rinnovabili e soprattutto gli apparati elettronici che rendono possibile la svolta. Per costruire una batteria elettrica, per un microchip e quindi per uno smartphone o computer, per i pannelli solari, per le pale eoliche ci vogliono litio, cobalto, titanio, berillo, queste alcune delle trenta terre rare che costituiscono letteralmente in termini economici il nuovo oro, non più nero ma multicolore. Di questi preziosi minerali, 20 sono ritrovabili in quantità vantaggiose per l’estrazione in Ucraina e proprio in quei territori che sono occupati da Putin. Non è quindi la Russia a non avere una strategia energetica di lungo corso. Quanto piuttosto l’Europa che si è cullata sul prezzo basso del gas e si è lasciata abbacinare dall’interesse immediato.

È fuori discussione che tutto l’attivismo che segna l’azione della Commissione europea in tema di energia nasce dalla consapevolezza del ritardo. La vulnerabilità del vecchio continente nasce anche dal fatto che la transizione implica l’utilizzo nell’immediato di prodotti nella disponibilità della Cina. Le aziende cinesi producono già ora il 70% dei pannelli e la metà delle turbine eoliche e delle macchine elettriche del mondo. Ed è il motivo per il quale l’America intende mettere in pratica quello che si chiama «decoupling» ovvero il distacco dalle forniture cinesi e dalla dipendenza energetica. Con questa differenza rispetto all’Europa. Gli Stati Uniti godono della piena sovranità energetica e quindi in ragione anche della sovraproduzione di petrolio e di gas da scisto possono esportare.

Così l’Europa è dipendente dal gas liquefatto americano che passa dalle navi metaniere ai rigassificatori quali quelli in Italia di Ravenna e di Piombino. Il tutto a prezzo di mercato, come ben sappiamo dalle nostre bollette elettriche. Non solo, ma con un atto del governo americano denominato «Ira» (Inflation reduction act) e approvato dal Congresso si incentiva l’uso delle energie rinnovabili ad una condizione: che tutto venga prodotto in Usa. Questo vuol dire che al di là dell’Oceano chi opera nel settore gode di una serie aiuti finanziari, fiscali e logistici che rendono la produzione in Europa un lusso se non un azzardo. Elon Musk, che aveva creato un sito di allestimento di batterie elettriche in Germania, ha bloccato tutto. Audi, che aveva in animo di investire miliardi in nuove strutture aziendali pensa già ad emigrare. Nell’immediato l’Europa è con le spalle al muro, ha pochi spazi di manovra a Est come a Ovest.

L’Italia è stata con Draghi una della prime a capire che occorreva diversificare. Il merito dell’ex governatore della Bce è stato anche aver indicato nei Paesi africani e nell’Estremo oriente non cinesizzato gli sbocchi per le forniture e per l’export. Robert Habeck, ministro tedesco dell’Economia, ne ha fatto un dossier in alternativa alla Cina. Il governo Meloni al momento non sembra avere una visione organica, si va a singoli settori e si rincorrono i dossier, «Ita» con la ricerca di un partner industriale che non metta l’Italia alla mercè del traffico aereo altrui e poi la digitalizzazione, dove mancano obiettivi e date precise. La paura di perdere consenso condiziona l’azione di governo. La capacità di guida di un leader politico si vede anche da qui.

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