Sovranismo italiano: unicità in Europa

ITALIA. Che perda o meno, il trumpismo, inteso anche come contagiosa malattia senile della democrazia americana, cade in un periodo in cui le forze antisistema sono entrate nella fase 2 della loro tumultuosa esistenza pure in Europa dove, senza sfondare, hanno mantenuto la presa.

Erodere le istituzioni dall’interno risulta un esercizio più sofisticato e sostenibile rispetto allo scontro frontale: qualcosa di anomalo che s’è fatto normale. Trump, quando vinse nel 2016, ha usato il populismo come trampolino, ora vuole farne un’ideologia di governo. Se lo stile impresentabile del tycoon e il culto della personalità di cui gode non sono cambiati in un partito repubblicano che fu di Lincoln e Reagan rifondato a propria immagine e somiglianza, l’offerta politica appare meno improvvisata, sorretta da centri studi e proposte concrete.

Qualcosa del genere s’è già visto in Europa, dove in 9 Stati su 27 le destre radicali, superata l’infanzia sguaiata, fanno parte di governi a vario titolo. Un po’ per spirito camaleontico, un po’ perché bisogna fare i conti con la realtà, questo mondo è costretto a raddrizzare il tiro in nome della sopravvivenza e di future repliche: pur senza farlo sapere in giro, deve ammettere che l’Europa non è fonte di guai, ma di soluzioni necessarie e non raggiungibili con il sovranismo. Sarà così importante capire cosa può succedere dopo il voto a novembre negli Usa, perché qualche scarto potrebbe avvenire. Trump è nemico dichiarato del vecchio continente. Anche nella recente intervista con Elon Musk, ha ribadito che gli europei sono come i cinesi, «un popolo molto cattivo». Solo gli interessi contano nelle relazioni internazionali, come si sosteneva nell’800, e per lui quindi esistono solamente i singoli Stati con i quali contrattare. Il senso grossolano di utilità nell’immediato è ciò che definisce l’approccio e accomuna l’ipotetica Internazionale sovranista. Kamala Harris è consensuale alla Biden, tuttavia gli alleati devono contribuire maggiormente, in termini industriali e militari, al nuovo sistema internazionale, perché - ha ricordato il politologo Sergio Fabbrini sul «Sole 24 Ore» - l’ordine transatlantico del dopo Guerra fredda non ha più basi materiali e politiche. Se dunque la strategia di Trump mira a indebolire l’Ue, quella di Harris sfida la capacità europea di rimettersi in gioco, cioè di riformarsi su territori inediti e con un’opinione pubblica non ancora preparata a questo salto in avanti.

Un percorso carico di incognite e qui ci sarà da capire che cosa intende essere il conservatorismo-sovranismo italiano e che ruolo vuol giocare in Europa e nella comunità atlantica. In politica estera (che è politica tout court) il governo Meloni ha tre posizioni: della premier, del titolare della Farnesina Tajani e del vice premier Salvini. Giorgia Meloni è atlantista e, insieme, un misto di europeismo critico e scettico, esterno alla sensibilità tradizionale. L’Italia di destra, a metà strada fra i sostenitori dell’integrazione e i loro sabotatori, è forse un caso unico e, in quanto socio fondatore, può costituire un problema per i vertici di Bruxelles. Schematizzando: c’è stato un prima e un dopo. Fino al 9 giugno, quando la leader degli euroconservatori ha bocciato il bis di Ursula von der Leyen e ad eccezione della mancata ratifica della riforma del Mes, aveva accumulato una serie di crediti smentendo i peggiori timori. L’amicizia istituzionale con la presidente della Commissione aveva completato il cerchio. Poi, però, il successo alle Europee s’è tramutato in una sorta di richiamo della foresta in chiave euro-ostile ed è ricomparsa la sagoma dell’ungherese Orban, pur sapendo che la politica a Bruxelles, piaccia o meno, passa da Parigi e Berlino. Vincitrice alle urne, non ha voluto (o potuto) capitalizzare la sua forza parlamentare per influenzare la Commissione, rimanendo esclusa dai giochi. L’interesse dell’Italia non si coniuga con lo «splendido isolamento».

Il capitale politico accumulato in due anni di governo s’è deteriorato in una manciata di settimane. Un’occasione perduta, un brutto inciampo per l’Italia che ora si ritrova all’opposizione dopo aver coltivato da sempre gli ideali europeisti e osservato i vincoli esterni imposti dalle regole comunitarie quali fattori di crescita civile e dei processi di modernizzazione. Non solo. Come ha osservato l’eminente giurista Andrea Manzella, mettendosi di traverso alla «maggioranza Ursula» e interrompendo uno storico indirizzo italiano, la premier s’è posta non solo contro una formula politica ma contro una formula costituzionale di governo. La condizione di Paese già osservato speciale, sotto infrazione per deficit eccessivo e con un debito pubblico al 140% del Pil e alla vigilia di una legge di bilancio che non sarà indolore, suggerirebbe la ricerca di alleanze piuttosto che il conflitto identitario che conduce alla solitudine. Vediamo se otterremo un eurocommissario di peso. Il tocco magico di Meloni comincia a non esserci più perché profuma d’antico e la stessa distanza che si va accumulando fra il partito «ordine e legge» di Giorgia e il nuovo formato liberal di Forza Italia sui diritti (cittadinanza e carceri) rivela, sui temi più sensibili e scivolosi, i ritardi culturali di una destra di lotta e di governo che fatica a smaltire le scorie radicali del passato, l’altra faccia della sua crescita elettorale.

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