L'Editoriale
Domenica 25 Aprile 2021
Siria, la pace inventata
e il mare cimitero
Uno Stato reduce da un conflitto può essere considerato in pace se si verificano almeno due condizioni: un accordo fra gli ex belligeranti che abbia posto fine ai combattimenti, con relativo disarmo, e un percorso convinto di riconciliazione tra le parti. In Siria, vittima di una guerra decennale pesantemente condizionata da potenze mondiali e regionali, queste condizioni non ci sono. Anzi: in alcune aree proseguono scontri armati e bombardamenti. Ma incredibilmente nell’estate 2020 la Danimarca è diventata il primo Paese Ue a considerare Damasco e i suoi dintorni un luogo sicuro, al punto - e questo è l’obiettivo della malaccorta considerazione - da costringere centinaia di asilanti ad abbandonare la loro nuova vita e a tornare in Siria. I giovani attivisti di «Generation Identitær», movimento nazionalista di destra, hanno tappezzato Copenaghen con manifesti vergognosi, sui quali è scritto: «Buone notizie, ora puoi tornartene nella soleggiata Siria. Il tuo Paese ha bisogno di te».
Il Partito del popolo, nazionalista, tiene sotto ricatto con il sostegno esterno il governo di minoranza guidato da una coalizione di centrosinistra. È nato così il provvedimento dell’estate scorsa, cieco anche di fronte all’evidenza che il regime di Bashar al Assad consideri traditori i siriani fuggiti in Europa, passibili di persecuzioni e incarcerazioni sommarie. Non solo: venerdì scorso due bambini di 4 e 5 anni sono stati uccisi e un terzo di 14 è stato ferito dall’esplosione di un ordigno nel Golan a sud-ovest di Damasco. Su questa scia oltranzista, il governo danese ha annunciato il suo obiettivo successivo: raggiungere «quota zero richiedenti asilo» (a 70 minori siriani è stato già rifiutato il permesso).
Con un’ulteriore nota aberrante: non esistendo alcuna forma di cooperazione fra Danimarca e Siria, e non potendo costringere i richiedenti asilo a tornare in un luogo che l’Ue e l’Onu considerano giustamente ancora in guerra, i respinti sono adesso rinchiusi in centri di detenzione. Per ora sarebbero 189 persone - studenti, operai, impiegati, tutti integrati, che parlano il danese come prevede la legge nazionale - a cui non è stato rinnovato il documento di soggiorno. Che uno Stato dell’Unione europea decida unilateralmente che «a Damasco non c’è più la guerra» è grave. Ma lo è ancora di più che asilanti salvati finiscano addirittura in detenzione. Accade in Europa, i cui Stati hanno sempre dichiarato la disponibilità ad accogliere chi scappa da conflitti e persecuzioni ma non gli irregolari. Una grande ipocrisia, come certifica il fatto che manchino canali umanitari d’ingresso nella Ue per chi si lascia alle spalle combattimenti.
Intanto il Mediterraneo continua a risucchiare giovani vite di migranti: in settimana hanno perso la vita prima una quarantina di persone vicino alle coste tunisine e poi 130 al largo della Libia, dove è scomparso anche un gommone. «Altri morti, altro sangue sulla coscienza dei buonisti che, di fatto, invitano e agevolano scafisti e trafficanti a mettere in mare barchini e barconi stravecchi, anche con pessime condizioni meteo» è stato il profondo commento di Matteo Salvini, leader del principale partito italiano. Non si è capito a quali buonisti alludesse. All’origine del naufragio che ha provocato la strage c’è una serie di omissioni di soccorso durate 48 ore, mentre il gommone lentamente affondava. La Guardia costiera libica non è voluta intervenire «perché c’è il mare grosso»; vani gli appelli ai centri marittimi di coordinamento, compresi Italia e Malta: hanno respinto la responsabilità di coordinare le operazioni di «search and rescue»; gli aerei di Frontex (agenzia legata all’Unione europea, da due anni non più presente nel Mediterraneo con proprie missioni) che individuano dall’alto il gommone, ma senza attivare un intervento; la decisione di alcuni mercantili di mettersi autonomamente alla ricerca dei naufraghi, assieme alla nave della ong Sos Mediterranee, Ocean Viking, distante però dieci ore di navigazione. È Alarm Phone, il centralino per i soccorsi, a fornire una dettagliata ricostruzione della tragedia. La Guardia costiera italiana si attiva ma da tempo ha l’ordine di non uscire oltre le 20 miglia marine dai porti in Sicilia.
L’ennesimo dramma conferma un’evidenza: nel Mare Nostrum opera ormai una sola nave di ong, la Ocean Viking appunto, ma gli sbarchi sono triplicati in un anno (soprattutto per il disfacimento economico della Tunisia; dal 1° gennaio al 19 marzo di quest’anno sono arrivati sulle nostre coste 6.068 migranti, 2.738 nello stesso periodo del 2020). Non è quindi la presenza di navi di salvataggio a incentivare le partenze. Tra il 2015 e il 2020 l’Italia e l’Ue hanno speso un miliardo e 337 milioni di euro per cercare di fermare gli arrivi dall’Africa (cifra sottostimata perché le spese sono spesso occultate sotto l’ombrello di voci di bilancio più ampie). Nel budget settennale approvato nel dicembre 2020, l’Unione europea ha previsto un’ulteriore spesa di 12 miliardi, attingendo da fondi destinati invece allo sviluppo dei Paesi poveri. L’Italia poi, esponendosi a possibili ricatti , per esternalizzare le frontiere ha versato 200 milioni di euro alla Libia negli scorsi tre anni, altri 66 nel 2021, destinati anche alla gestione della locale Guardia costiera, infiltrata in luoghi di partenze da trafficanti.
Alcune domande si pongono: quali sono gli effetti di questa politica che spesso contrasta col diritto internazionale? Chi sono e cosa cercano i migranti che puntano all’Europa? Da quali Stati provengono gli irregolari? Una decina al massimo, non molti: con uno sguardo più lungo non si potrebbe intervenire in quei Paesi con politiche serie di cooperazione allo sviluppo e commerciali che garantiscano anche il diritto a non dover emigrare? Ma su tutto c’è un punto fermo: salvare le vite di chi sta naufragando è un dovere. L’omissione è un crimine.
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